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Autore: admin

Veneziano scrive a Franolich

Gentile dott. Franolich,
ringrazio per gli aggiornamenti in merito al Verbale del lontano incontro delle Associazioni Venatorie. Non mi stupiscono i comportamenti documentati di storici avversari dell’unità.

La discussione sulle prospettive è offuscata da ambiguità. Altro che la dichiarata rappresentanza unitaria utile nei rapporti istituzionali! I documenti testimoniano altro. Gli incontri in Parlamento, quando comunicati dall’allora “Cabina” hanno visto anche posizioni diverse se non si partiva da testi FIdC/Armieri; Regioni, ATC e CA che sono Istituzioni fondamentali per la caccia sono dimenticati per “interessi”, di certo, non dei cacciatori.

Riterrei un errore, invece, che al confronto voi non ci siate per arrendervi alle “provocazioni” conseguenti a reiterati arbitri consentiti dall’attuale, voluta assenza di regole (statuto) che disciplinino le relazioni, cosa corretta anche ai sensi di legge.

Si curano così le prospettive dei cacciatori? Non pare neppure a questi. Mi permetto di dirti che sarebbe sbagliato abbandonare o non proporre il “confronto” tra Associazioni venatorie.

Certo non più riservato. Alimentiamo costantemente la conoscenza e il giudizio dei cacciatori, delle aziende faunistiche degli ATC e dei CA. Sconfiggere gli “opportunismi” è possibile, divulgando la conoscenza.

La “vaccinazione” contro il virus della secretazione di “verbali” di riunioni i cui contenuti – che non si possono conoscere all’esterno esistono – sono incontri in diretta streaming, audio registrazioni che tutti possono ascoltare. Isolare quanti di “beghe” sopravvivono è vincente.

I produttori di armi e munizioni fanno un altro mestiere e si incontreranno ogni qual volta e se interessati e utili alla gestione della “caccia”. Si ascolterà il loro autonomo pensiero superando lo sterile “gioco di sponda”.

Essere Associazioni ce lo impone.

L’EPS, in parte anche direttamente interprete dell’agricoltura, nella “partita” è indispensabile tanto quanto e più di altri. Le proposte di privatizzazione che sono delle organizzazioni del mondo agricolo tutto e di Associazioni venatorie che, così, gestiscono in Trentino, possono essere superate in una pratica realizzazione di caccia sociale ed integrata nelle percentuali di legge riconoscendo il ruolo produttivo degli agricoltori, già previsto in legge.

E’ grave non discutere con sincerità di questi temi, peggio è la manipolazione strumentale.

L’impegno dell’Eps non è limitato al numero dei soci cacciatori come qualcuno vuol far credere, ma alla capacità di rapporto con gli Istituti Faunistici privati quando più attenti alla ricchezza del patrimonio naturale al quale possono concorrere. Per i fagiani del “sacco” di una caccia più consumistica dovrebbe portare più vergogna l’Associazione che dirige più ATC e CA e che fa pagare alla gestione ripopolamenti sterili, acquisti di cassette, ceste di animali che di fauna selvatica non hanno neppure gli antenati.

Lasciamo in “fallaci fortini” quei ceti dirigenti che si sono fatti volentieri assediare in autotutela di se stessi. Lasciamo a loro la “riservatezza” per non coinvolgere i soci.

La vostra interlocuzione attiva per le competenze scientifiche maturate è riferimento formativo grazie alla Scuola Forestale Latemar che è realtà culturale e scientifica, alternativa ai “cantori”   – a loro dire – con importanti costi.

La vostra formazione è spesso positivamente integrata con le esperienze di URCA, Associazione ambientalista saggiamente autonoma (salvo profittatori esterni).

I cacciatori, utenti che pagano “bollette” associative come “salate” tasse, non sono nella mia cultura e, credo, neppure nella tua.

I soci, gli iscritti, di norma vogliono contare …e questo ad altri fa paura. Sono a dirti che sono pronto a collaborare ad iniziative che aprano porte e finestre di questo mondo, che portino aria nuova, il vento che necessita alle vele della lunga traversata, per tornare a vincere.

La mia tessera di cui sono orgoglioso, non è la tua di cui sei, giustamente, altrettanto orgoglioso, ma questo non mi impedisce, personalmente di lavorare con te per una concreta  prospettiva, migliore di quella che non vogliono proporre altre  Associazioni. La “Cabina del bla…bla” è in soffitta. Torniamo ad unire energie per la vita della caccia.

Con stima ed amicizia

Osvaldo

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L’intervista esclusiva: a Rachel Carrie

La storia di Rachel Carrie, cacciatrice e mamma dello Yorkshire, che ha avuto il coraggio di provocare anche il quartiere londinese di Shoreditch “la culla del veganismo” non poteva che attirare la mia attenzione. E, quindi, per la mia naturale diffidenza ( su Instagram ha più di 60 mila follower) incuriosito anche dalle sue immagini glamour tanto da essere stata votata una delle dieci cacciatrici più “hot” del mondo non potevo che richiederLe un’intervista prima di avventurarmi nella lettura del suo ultimo libro “GAME AND GATHERINGS THE COOK BOOK” acquistabile presso Fieldsports Emporium al seguente link: QUI

Buongiorno Rachel, sono molto curioso e dispiaciuto per le solite maldicenze degli haters, da cacciatore non posso che chiederti quali sono le motivazioni che ti hanno spinto a diventare una cacciatrice.

Hi Marco, mio padre mi ha fatto conoscere la caccia fin dalla tenera età di 8 anni, per la semplice ragione che cacciavamo i conigli da mangiare, e più tardi nella vita per lo stesso motivo ho iniziato a cacciare: reperire carne sana e naturale vivendo la natura.

Prova a descrivermi il tuo rapporto con la natura? 

Per me la natura è una parte importante di ciò che sono. Lavoro nel campo ambientale e quindi l’ecologia e il rapporto tra uomo e ambiente mi affascinano molto. Sono sempre stata, sin da giovane, un grande amante della fauna selvatica e quindi il mondo naturale è qualcosa che mi interessa e che vorrei conservare per molte generazioni in modo che possano goderne anche dopo di me. 

Sono state sufficienti queste due domande per capire la tua profonda passione per la natura e per la caccia che trova nelle sue più profonde origini “l’alimentazione naturale  “ uno dei suoi cardini.  

Ora veniamo al tuo ultimo libro, puoi dirmi cosa pensano i tuoi amici delle tue ricette e con chi le provi abitualmente? 

I miei amici e la mia famiglia sono state, negli anni, le mie cavie per ricette buone e meno buone! Ma mio figlio ora adolescente, gioca a rugby e mangia come un cavallo – ed è sempre molto contento di provare la mia cucina! Ed è un grande fan soprattutto quando cucino il cervo.  

Che tipo di carne di selvaggina preferisci cucinare? 

La bellezza della carne di selvaggina è la varietà! Dai fagiani alla carne di cervo tutto ha versatilità, se dovessi scegliere il mio preferito è l’umile colombaccio, un sapore così gustoso per una carne sana e sostenibile. Ma adoro cucinare anche il fagiano e la pernice per la loro semplicità: tutto ciò che puoi fare con il pollo puoi farlo con il fagiano e la pernice! 

Un’ultima cosa puoi raccomandare ai nostri lettori tre motivi per incentivarli all’uso della carne di selvaggina? 

È un’alternativa molto più naturale, “cruelty free” e più sana delle comuni carni provenienti dagli allevamenti intensivi 

Grazie Rachel per il tempo che ci ha i dedicato e vorrei concludere con una tua frase: “ti incoraggio a scarabocchiare con appunti le mie pagine, modificare le mie ricette e creare le tue preferite da trasmettere ai tuoi figli. “ 

 

Marco Franolich

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Il recupero dei borghi rurali: competenze urbanistiche e finanziamenti

Il recupero dei borghi rurali: competenze urbanistiche e finanziamenti


Sommario: 1. L’interesse al recupero e le competenze; 2. Ipotesi di sostegno economico: la normativa statale e regionale; 3. I Programmi di sviluppo rurale; 4. L’impiego dei fondi strutturali dell’Unione europea; 5. Il recupero dei villaggi rurali nel territorio delle aree naturali protette; 6. Conclusioni.

 

  1. L’interesse al recupero e le competenze

Ineluttabile premettere che i borghi rurali, o sovente “quel che ne rimane”, caratterizzano ancora buona parte del patrimonio storico ed architettonico della nostra Italia.

Di norma sono scrigni del tempo ove si rinvengono minute tracce della ormai perduta civiltà contadina. Più spesso raccontano di insediamenti con radici storiche molto profonde e con altrettanto intenso valore culturale in genere.

L’agricoltura globalizzata e la conseguente trasformazione del paesaggio agrario cozzano con la loro sopravvivenza secondo la dimensione e la funzionalità originaria.

Ma, proprio per la finalità di conservazione del paesaggio (“culturale”), almeno quanto alle componenti edilizie, meritano un’attenzione di recupero, per la quale è d’obbligo premettere un intersecarsi di competenze assai poco agevole.

Vengono coinvolti, sul punto, i settori dell’ordinamento (e così le amministrazioni di settore) che hanno poteri in materia di urbanistica, di tutela del paesaggio e dei beni culturali, di agraria (lato sensu), di aree protette.

La questione che appare più semplice da descrivere è quella che s’interfaccia con le competenze in tema di urbanistica ed edilizia: il recupero dei borghi rurali non deroga alle ordinarie competenze di settore ed è la matrice, la tipologia e la dimensione dell’intervento di recupero che determinano la figura di assenso edilizio necessario.

Ovviamente si determineranno sovrapposizioni allorché l’area su cui insiste il borgo rurale si colloca, ad esempio, nel perimetro di un’area protetta o di un’area “Natura 2000”.

E, sempre esemplificando, in tali casi, si produrrà la necessità di accompagnare gli assensi edilizi ordinari con il nulla-osta dell’ente parco o con l’esperimento di una procedura di valutazione d’incidenza (dovendosi considerare la “dimensione” dell’intervento, se rilevante o meno ai sensi dell’art. 5 comma 3 d.p.r. 357/1997, o qualora ricompreso in eventuali piani comunque considerati dall’art. 5 comma 2 della medesima normativa).

  1. Ipotesi di sostegno economico: la normativa statale e regionale

Su queste premesse appare d’obbligo verificare se ed in che modo il legislatore abbia mai attenzionato il recupero dei borghi rurali, magari cogliendone anche le potenzialità di valorizzazione turistica.

Vi è, a tal proposito, una normativa ad hoc: attraverso la l. 24 dicembre 2003 n. 378, recante “Disposizioni per la tutela e la valorizzazione dell’architettura rurale”, è stato posto l’obiettivo di salvaguardare e valorizzare le tipologie di architettura rurale, quali insediamenti agricoli, edifici o fabbricati rurali, presenti sul territorio nazionale, realizzati tra il XIII ed il XIX secolo e che costituiscono testimonianza dell’economia rurale tradizionale.

In forza di tale previsione, le regioni possono individuare, “sentita la competente Soprintendenza per i beni e le attività culturali”, gli insediamenti di architettura rurale presenti nel proprio territorio e possono provvedere al recupero, alla riqualificazione e alla valorizzazione delle loro caratteristiche costruttive, storiche, architettoniche e ambientali, anche attraverso la predisposizione di appositi programmi, di norma triennali.

Siffatti programmi devono contemplare:

  1. a) la definizione degli interventi necessari per la conservazione degli elementi tradizionali e delle caratteristiche storiche, architettoniche e ambientali degli insediamenti agricoli, degli edifici o dei fabbricati rurali tradizionali al fine di assicurarne il risanamento conservativo ed il recupero funzionale, compatibilmente con le esigenze di ristrutturazione tecnologica delle aziende agricole;
  2. b) la previsione di incentivi volti alla conservazione dell’originaria destinazione d’uso degli insediamenti, degli edifici o dei fabbricati rurali, alla tutela delle aree circostanti, dei tipi e metodi di coltivazione tradizionali, e all’insediamento di attività compatibili con le tradizioni culturali tipiche.

I programmi in parola devono altresì stabilire le modalità di approvazione dei singoli interventi e dei relativi piani finanziari e definire le forme di verifica sull’attuazione degli interventi stessi e sull’utilizzo delle risorse. Inoltre, possono essere approvati avendo prima eventualmente definito le forme di concertazione con gli enti locali interessati e non senza aver tenuto conto del parere preventivo dei Ministri per i beni e le attività culturali, dell’ambiente e della tutela del territorio e delle politiche agricole e forestali.

Al fine di sostenere economicamente l’iniziativa, la norma prevede la costituzione, presso il Ministero dell’economia e delle finanze, di un Fondo nazionale per la tutela e la valorizzazione dell’architettura rurale.

Le risorse assegnate annualmente al Fondo sono ripartite tra le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano dal Ministro dell’economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, proporzionalmente alle richieste di finanziamento relative agli interventi effettivamente approvati da ciascuna regione e provincia autonoma e anche in rapporto alla quota di risorse messe a disposizione dalle singole regioni e province autonome medesime.

Per gli anni 2003, 2004 e 2005, la dotazione del Fondo di cui al comma 1 è determinata in 8 milioni di euro annui. A decorrere dall’anno 2006, al finanziamento del Fondo si provvede ai sensi dell’articolo 11, comma 3, lettera f), della legge 5 agosto 1978, n. 468 (stanziamenti di Legge finanziaria).

Quale risultato dell’attuazione normativa, sarebbero erogati contributi a soggetti proprietari o titolari degli insediamenti, degli edifici o dei fabbricati rurali fino all’importo massimo del 50 per cento della spesa riconosciuta secondo il relativo piano finanziario.

Il pagamento avviene sulla base dello stato di avanzamento dei lavori, ovvero, previa verifica, a saldo finale e tali contribuzioni non sono cumulabili con altri contributi pubblici

La concessione della contribuzione è subordinata alla stipula di un’apposita convenzione che prevede, tra l’altro, la non trasferibilità degli immobili per almeno un decennio, l’avvenuto rilascio dei permessi per la realizzazione delle opere, la redazione del preventivo di spesa a cura del direttore dei lavori e sottoscritto dal proprietario, la possibilità di revoca dei contributi per il mancato inizio dei lavori entro sei mesi dalla data del rilascio delle apposite autorizzazioni o a causa di lavori eseguiti in difformità rispetto ai progetti approvati.

L’intervento normativo in parola è stato seguito dall’emissione del decreto del Ministro per i beni e le attività culturali del 6 ottobre 2005, recante l’« individuazione delle diverse tipologie di architettura rurale presenti sul territorio nazionale e definizione dei criteri tecnico-scientifici per la realizzazione degli interventi, ai sensi della legge 24 dicembre 2003, n. 378», e dalla direttiva 30 ottobre 2008, dello stesso Ministero, sugli interventi in materia di tutela e valorizzazione dell’architettura rurale.

Nonostante l’appassionante contenuto, purtuttavia, non parrebbe che la legge in parola abbia trovato florida e fattuale attuazione.

Passando al livello legislativo regionale, vi è che la regione Toscana, in forza della l.r. 19 marzo 2015 n. 30, recante “Norme per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturalistico-ambientale regionale”, ha inteso contemplare i nuclei abitati rurali e le tipologie di architettura rurale di cui alla legge 24 dicembre 2003 n. 378, fra gli obiettivi per i quali «la Giunta regionale e gli enti parco, in coerenza con le indicazioni e gli indirizzi contenuti nel documento operativo annuale, individuano forme di collaborazione» (così l’art. 38, sul «Sostegno delle attività economiche e produttive eco-compatibili».

Anche la regione Campania richiama la norma in parola, ma sembra farlo in una maniera molto più costruttiva, giacché il rinvio, contenuto nella l.r. 12 dicembre 2006 n. 22, recante “Norme in materia di tutela, salvaguardia e valorizzazione dell’architettura rurale” (per cui «i contributi concessi ai sensi del comma 1 costituiscono anche quota regionale di risorse ai fini della ripartizione del fondo di cui alla legge 24 dicembre 2003, n. 378, articolo 3, comma 1») accede in realtà in un contesto autonomo di valorizzazione e di sostegno economico delle tipologie di architettura rurale tradizionali, quali insediamenti agricoli, edifici o fabbricati rurali.

La previsione normativa campana sembra particolarmente felice in particolare nella parte in cui concede contributi per interventi di manutenzione straordinaria, consolidamento, restauro, risanamento conservativo di manufatti di architettura rurale tradizionale, e «di conservazione dell’originaria destinazione d’uso degli insediamenti, degli edifici, dei fabbricati rurali e delle aree circostanti, dei tipi e dei metodi di coltivazione tradizionali, nonché per l’incentivazione dell’insediamento di attività compatibili con le colture tradizionali tipiche». Ciò tenendo conto della previsione di un’erogazione di «contributi in conto capitale nella misura del quarantacinque per cento delle spese ammissibili effettivamente sostenute per la realizzazione degli interventi», con un limite massimo di 250.000,00 euro per ciascun intervento ammesso a contributo.

Apprezzabili anche le singole disposizioni (art. 5 l.r. Campania n. 22/2006) che prevedono la concessione di «contributi finanziari in via prioritaria per l’attività di censimento e catalogazione del patrimonio rurale tradizionale presente nel territorio dei comuni campani e anche per studi, ricerche, mostre e altre forme di divulgazione». Cui sembra corrispondere, ad esempio, l’impegno del proprietario/beneficiario a «consentire l’accesso al pubblico in almeno un giorno al mese e nella ricorrenza di iniziative tese alla valorizzazione dei contesti rurali».

Altra ipotesi di sostegno economico è rinvenibile nella l.r Sicilia 15 settembre 2005 n. 10, ove si prevede un finanziamento dei distretti turistici che, fra altre finalità, perseguono l’obiettivo di «individuare e proporre particolari tipologie di architettura rurale realizzate tra il XII ed il XX secolo, a prescindere da qualsiasi ipotesi di utilizzazione di natura ricettiva, ristorativa e sportivo-ricreativa, secondo quanto previsto dalla legge 24 dicembre 2003 n. 378, al fine della loro tutela e valorizzazione».

  1. I Programmi di sviluppo rurale

Il gap seguito alla legge n. 378/2003 lo si ritrova parzialmente colmato in alcuni programmi di sviluppo rurale, con una apparente lieve forzatura di contenuto di alcune misure d’intervento.

E’ il caso del PSR 2014-2020 della regione Campania.

Nell’ambito della Misura M07, “Servizi di base e rinnovamento dei villaggi nelle zone rurali”, è infatti ben scansita la Sottomisura 7.6, recante il “Sostegno per studi/investimenti relativi alla manutenzione, al restauro e alla riqualificazione del patrimonio culturale e naturale dei villaggi, del paesaggio rurale e dei siti ad alto valore naturalistico, compresi gli aspetti socioeconomici di tali attività, nonché azioni di sensibilizzazione in materia di ambiente”. Si tratta, nello specifico della Tipologia di intervento 7.6.1, e cioè “Riqualificazione del patrimonio architettonico dei borghi rurali nonché sensibilizzazione ambientale”.

Ciò è riconducibile nell’Azione B, “Riqualificazione del patrimonio culturale rurale”, come Intervento B1 di progetto integrato, recante l’Obiettivo specifico 6a, per “Favorire la diversificazione, la creazione e lo sviluppo di piccole imprese nonché dell’occupazione”.

L’attuazione, attraverso i bandi, ha previsto ulteriori passaggi, incentivanti e migliorativi.

Ad esempio, quanto al recupero delle “facciate a vista” (degli immobili di proprietà di interesse storico) è contemplato un sostegno che raggiunge il 100% sino all’importo di 30.000€ e del 75% per somme superiori.

Allo stesso modo, per il “restauro e risanamento degli edifici” (con obbligo di implementazione di un’attività economica), il sostegno è pari al 75% fino all’importo massimo erogabile di € 200.000€.

Nella costruzione dei criteri, è stata opportunamente stabilita la «preferenzialità per l’impiego di tecniche finalizzate al risparmio energetico e al miglioramento sismico dei fabbricati».

Purtuttavia, solo in alcuni PSR è prevista questa forma specifica di sostegno, a fronte della valanga di interventi dedicati alla “banda larga”, la cui piena rispondenza all’obiettivo della misura M07 è tutta da dimostrare.

Il PSR 2014-2020 della Regione Veneto, accanto alla “banda larga” e al sostegno per investimenti di fruizione pubblica in infrastrutture ricreative, informazioni turistiche e infrastrutture turistiche su piccola scala, finanzia (al 50% o al 100% nel caso di enti pubblici) gli investimenti aventi ad oggetto strutture ed infrastrutture del patrimonio architettonico culturale dei villaggi e del paesaggio rurale di comprovato interesse storico-testimoniale, caratterizzanti per tipologie e/o caratteristiche costruttive e/o architettoniche. Ovvia la regola dell’assenza di compromissione dell’immagine architettonica e della struttura storica degli immobili e del rispetto delle tipologie e delle caratteristiche costruttive, architettoniche, storiche e paesaggistiche che li caratterizzano.

  1. L’impiego dei fondi strutturali dell’Unione europea

E’ d’obbligo interrogarsi sul legittimo impiego dei PSR per il sostegno economico al recupero dei borghi rurali. Dunque, s’impone una brevissima indagine della disciplina di settore dell’Unione europea.

Com’è noto, le risorse impiegate dai PSR attingono ai fondi strutturali dell’Unione Europea, in particolare al Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR), di cui al Regolamento UE 1290/2005, destinato a finanziare i programmi di sviluppo rurale, in regime di cofinanziamento con gli Stati membri.

Precedentemente era il Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEAOG) a garantire parte dei più estesi finanziamenti della politica agricola comune.

Per il periodo di programmazione 2014/2020, la normativa di riferimento è costituita dal Regolamento UE 1305/2013.

Nell’art. 19 delle premesse del regolamento in parola, vi si legge pacificamente che: «il rinnovamento dei villaggi e le attività finalizzate al restauro e alla riqualificazione del patrimonio naturale e culturale dei villaggi e del paesaggio rurale rappresentano elementi essenziali di qualsiasi impegno teso a realizzare le potenzialità di crescita delle zone rurali e a favorirne lo sviluppo sostenibile».

All’art. 20 della stessa fonte normativa, con maggior dettaglio (e con buona pace per la priorità normalmente assegnata alla “banda larga”), nella disciplina dei servizi di base e rinnovamento dei villaggi nelle zone rurali, sono specificamente richiamati gli «studi e investimenti relativi alla manutenzione, al restauro e alla riqualificazione del patrimonio culturale e naturale dei villaggi, del paesaggio rurale e dei siti ad alto valore naturalistico, compresi gli aspetti socioeconomici di tali attività, nonché azioni di sensibilizzazione in materia di ambiente».

Quel che spicca, nella differenza rispetto alla 24 dicembre 2003 n. 378, è un approccio “integrato”, non affatto limitato all’aspetto dell’architettura rurale, ma che vi comprende il “paesaggio” rurale, il patrimonio naturale e culturale dei villaggi , come incastonamento di perfetta simbiosi tra economia e vita agricola tradizionale, nella conservazione di tutto ciò che così diviene «paesaggio culturale» (Kulturlandschaft), sottolineato dalla cointeressenza normativa rispetto ai “siti ad alto valore naturalistico”.

Un laboratorio normativo omogeneo, che si profila come derivato da un approccio olistico, il cui culmine appare rappresentato dall’azione generale e finale di sensibilizzazione in materia ambientale.

Sullo sfondo, poi, il principio dello sviluppo sostenibile sembra affiorare con il richiamo agli aspetti socioeconomici legati alla conservazione dei villaggi e del paesaggio rurale tradizionale, la cui rilevanza appare, però, più rispecchiare il senso della tutela dell’intero legame (culturale) fra le attività tradizionali antropiche agro-silvo-pastorali ed il territorio naturale in cui si svolgono, piuttosto che di una mera crescita economica produttivamente rilevante.

Per mero diletto, rimane da interrogarsi sulla semantica che, così, oscilla tra “villaggi” e “borghi”. Sotto questo profilo, il tecnicismo della legge n. 378/2003, che si riferisce ad “insediamenti agricoli, edifici o fabbricati rurali” rimane intonso. Si sottolinea, purtuttavia, una probabile maggior coerenza della locuzione «villaggio» (rispettivamente in inglese, francese e tedesco: Villages/Villages/Dörfen), piuttosto che quella di «borgo», ancorché invalsa nell’uso comune soprattutto se accomunato dall’aggettivo «rurale».

  1. Il recupero dei villaggi rurali nel territorio delle aree naturali protette

Un discorso a parte è richiesto nell’eventualità che l’edilizia rurale, di valenza storico-architettonica, da conservare o recuperare, insista nel territorio di aree naturali protette.

E’ sì vero che fra le finalità della legge quadro 6 dicembre 1991 n. 394 si rinviene quella dell’«applicazione di metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare una integrazione tra uomo e ambiente naturale, anche mediante la salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici e architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali e tradizionali» (art. 1 comma 3 lett. b). Ma è l’ente gestore dell’area protetta a caratterizzare il proprio territorio e, dunque, a scegliere fra le diverse ipotesi di disciplina possibili, quanto al recupero o alla manutenzione del patrimonio immobiliare esistente.

Difficilmente, per la loro intrinseca natura, gli insediamenti di cui alla presente trattazione potranno trovarsi nei confini ritagliati per le zone di promozione economica e sociale (che individuano le aree degli insediamenti abitativi e di promozione e sviluppo delle attività socio-economiche delle comunità locali), normalmente distinte fra zone impegnate da aree urbane, periurbane e agglomerati abitativi frazionali e zone interessate da infrastrutture ed attività impiantistiche turistiche, d’impresa e/o comunque produttive.

Sarà, dunque, l’ente parco, invero, a stabilire il perimetro delle c.d. «aree di protezione», che ricomprendono i paesaggi antropici “caratterizzati da un esercizio sistematico ancorché moderato di utilizzazioni agro-silvo-pastorali, secondo metodi tradizionali e di agricoltura biologica, e dalla presenza di forme sostenibili di ospitalità e fruizione in ambiente rurale”. Ed è in tale zona che, di regola, sono ricompresi i fabbricati rurali permanentemente abitati e i fabbricati per l’esercizio delle attività agro-pastorali tradizionali.

La disciplina legislativa consente (art. 12 comma 2 lett. c) l. 394/1991), in tali «aree di protezione», unicamente interventi edilizi di manutenzione ordinaria, straordinaria, restauro e risanamento conservativo. Attività per le quali non può dirsi nemmeno escluso l’intervento di sostegno economico dell’ente gestore dell’area protetta.

Purtuttavia, ove le emergenze architettoniche di un vetusto borgo (o villaggio) rurale dovessero ricadere nella zonazione a maggior tutela, gli interventi di recupero potrebbero essere unicamente limitati al restauro e risanamento conservativo o adeguamento strutturale, nel caso delle aree di «riserva generale orientata». Oppure, qualora ricadano nelle zone di «riserva integrale», vietati tout-court.

Ciò in quanto la legge quadro sulle aree protette ha inteso tratteggiare un sistema di tutela assoluta (rectius, integrale) degli interessi naturalistici che non prevede alcuna forma di comparazione con contrappesi di tipo socioeconomico.

L’esempio potrebbe porsi per vetusti insediamenti abitativi che hanno rappresentato l’estremo baluardo dello sfruttamento della natura da parte dell’uomo, in zone ad elevatissima valenza naturalistica. In tali casi il contemperamento di un interesse comunque primario, in quanto stabilito negli obiettivi di legge (e cioè la salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici e architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali e tradizionali), rispetto alla tutela del primario interesse naturalistico, è affidato alla discrezionalità tecnica dell’ente parco per il tramite della redazione degli strumenti di gestione (piano per il parco e regolamento).

  1. Conclusioni

Facilmente può essere tratteggiata una sintesi, posto che è apparso in tutta evidenza un disinteresse della politica e dell’amministrazione verso il tema, trattato solo occasionalmente, ove si sono date delle combinazioni virtuose, ma senza che ciò abbia rappresentato un intervento dotato del carattere della sistematicità.

La legge n. 378/2003, apparentemente arenata, il finanziamento generalizzato della “banda larga” all’interno della più ampia e farsesca misura dei “Servizi di base e rinnovamento dei villaggi nelle zone rurali”, cozzano inesorabilmente contro la più profonda ed ampia visione dell’Unione europea che si preoccupa di attribuire sostegno economico per preservare il patrimonio culturale e naturale dei villaggi e del paesaggio rurale, con i relativi aspetti socioeconomici.

Non, dunque, un mero recupero dell’aspetto architettonico o paesaggistico, ma una difesa di tutto ciò che i villaggi rurali possono esprimere, a livello culturale ed economico.

Questo approccio non sembra essere stato in alcun modo recepito nel nostro paese. Evidentemente la salvaguardia dell’intero valore della tradizione rurale non è nelle “corde” di politici ed amministratori. Con la conseguenza dell’evidente perdita del valore culturale e dell’utile sopravvivenza delle economie tradizionali a ciò legate, che possono essere apprezzate anche in un’ottica pluridimensionale, qualora ci si rivolga alla genuinità della produzione agricola tradizionale, sia dal punto di vista della qualità nutrizionale, che del recupero della biodiversità, od anche del recupero di forme di occupazione lavorativa giovanile, ma sinanche ai fini di una valorizzazione turistica ulteriore e profonda del nostro territorio rurale.

Questa visione complessiva del recupero della cultura rurale potrebbe essere ricondotta all’intento, del legislatore europeo, di rivolgere l’azione di tutela dispiegata, in ultimo verso la più generale “sensibilizzazione ambientale”, cui certo possono dirsi appartenenti le categorie appena rappresentate, della qualità dei prodotti agricoli tradizionali, della biodiversità e di un sistema agricolo di produzione a bassissimo impatto ambientale.

Le aree protette, in proposito, sono dotate di un doppio filo di lama, giacché posseggono tutto lo strumentario per valorizzare e salvaguardare le attività agro-silvo-pastorali e tradizionali (con i relativi valori antropologici, archeologici, storici e architettonici), ma con gli stessi strumenti, in nome di un prioritario interesse naturalistico possono anche sterilizzare del tutto tali istanze.

Più realisticamente, anche in questo settore, tutto è relegato alla sensibilità culturale del personale tecnico ed amministrativo degli enti gestori, nonché ai loro orientamenti sulla concezione ecologica dell’ambiente, giacché spesso si giunge all’alternativa tra il recupero o il mantenimento di un dato ecosistema, storicamente determinatosi (nella genesi o) nella simbiosi con le attività antropiche tradizionali, e la libera evoluzione di processi naturali che hanno visto, nell’ultimo periodo, l’abbandono dei luoghi e delle economie rurali (ma anche montane) tradizionali, con un affaccio verso una rinaturalizzazione dei luoghi, sovente definibile semplicemente di “abbandono” con ogni conseguenza sulla trasformazione del paesaggio, dell’ecosistema, della distribuzione e presenza della fauna e quant’altro.

Si potrebbe concludere, allora, sostenendo che in questo Paese manca una riflessione identitaria. Il passato è stato impacchettato in un veloce oblio verso un futuro incerto e non direzionato. Ed è difficile individuare un futuro allorquando si sono perse le radici del proprio passato e non si è in grado di appoggiarsi ad un’identità culturale solida, che non sembra essere altra che quella ove la “ruralità” riveste un ruolo centrale di fulcro e di sostegno.

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Riferimenti bibliografici: AA.VV., I borghi rurali storici minori dell’entroterra marchigiano: riuso e valorizzazione, a cura di F. Guerrieri, Tecnostampa-Ostra Vetere, 2009; P. Urbani, Governo del territorio e agricoltura. I rapporti, in Riv. giur. edilizia, 2006, fasc.3, 117; M. Brocca, Paesaggio e agricoltura a confronto. Riflessioni sulla categoria del «paesaggio agrario», ivi, 2016, fasc.01-02, 2016, pag. 1; N. Ferrucci, Profili giuridici dell’architettura rurale, in Riv giur. amb., 2014, fasc. 6, 685; L. Casini, La valorizzazione del paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2014, fasc. 2, 385; A. Crosetti, Governo del territorio e tutela del patrimonio culturale: un difficile percorso di integrazione, in Riv. giur. edilizia, 2018, fasc. 2, 81; M. C. Zerbi – F. Fiore, Sviluppo sostenibile e risorse del territorio: il ruolo del patrimonio rurale, Torino, 2009; AA.VV., La politica di sviluppo rurale post 2013. Valutare i programmi di sviluppo rurale: approcci, metodi ed esperienze, a cura di R. Cagliero – S. Cristiano, Inea, Roma, 2013; A. Mattei, Politiche comunitarie: la politica agricola, gli interventi strutturali, le relazioni esterne, Torino 1996; S. Pareglio, Agricoltura, sviluppo rurale e politica regionale nell’Unione Europea: profili concorrenti nella programmazione e nella pianificazione dei territori rurali, Milano 2007; G. Di Plinio, Diritto pubblico dell’ambiente e aree naturali protette, Torino 1994; AA.VV., Aree naturali protette, a cura di G.L. Ceruti, Milano 1996.

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La tutela paesaggistica degli assetti fondiari collettivi

 

La tutela paesaggistica degli assetti fondiari collettivi


Sommario
: 1. Gli usi civici, beni paesaggistici. — 2. Quali usi civici? — 3. Il paradosso normativo. — 4. La tutela che non c’è: Naturschutz vs. Landschaftspflege. — 5. L’ossimoro della sovraordinata pianificazione paesaggistica nelle aree protette. — 6. Considerazioni di sintesi.

 Gli usi civici, beni paesaggistici

L’affermazione diparte dalle modifiche apportate dalla “Legge Galasso”[1] all’art. 82 del d.p.r. 14 luglio 1977 n. 616 in materia di beni ambientali, per cui sono state assoggettate «a vincolo paesaggistico ai sensi della legge 29 giugno 1939, n. 1497» anche «le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici»[2].

L’attualità normativa è rappresentata dall’art. 142 del d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, che riutilizza la medesima locuzione del 1985, senza modifica alcuna, collocandola nell’elencazione delle “aree tutelate per legge”.

Senza scivolare nella vasta e risalente discussione che ha scolpito faticosamente il concetto di «paesaggio»[3], ormai da riferirsi indistintamente alla “forma (o aspetto o immagine) dell’intero territorio nazionale, così come plasmata e risultante dall’interazione tra uomo e ambiente e composta anche dagli effetti dell’antropizzazione, cioè dalle dinamiche delle forze naturali e, soprattutto, delle forze dell’uomo”[4], gli usi civici sono oggi considerati per la trasformazione caratteristica che hanno recato all’ambiente naturale primigenio[5].

Si potrebbe aggiungere, a questo concetto tipicamente di Kulturlandschaft, il beneficio della valorizzazione dell’aspetto economico (e sociale) di alcune tradizioni agro-silvo-pastorali, come sottolineate anche dal legislatore europeo.

In tal senso, il sostegno alle «attività finalizzate al restauro e alla riqualificazione del patrimonio naturale e culturale dei villaggi e del paesaggio rurale rappresentano elementi essenziali di qualsiasi impegno teso a realizzare le potenzialità di crescita delle zone rurali e a favorirne lo sviluppo sostenibile»[6].

La l. 20 novembre 2017 n. 168 sui «domini collettivi»[7] ha ribadito, per questi, il medesimo aspetto di tutela, innestandovi due ulteriori sintagmi. Da un lato, invero, individua i domini collettivi come «strutture eco-paesistiche del paesaggio agro-silvo-pastorale nazionale»[8]; dall’altro sottolinea come il vincolo paesaggistico garantisca «l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio»[9].

Si dirà, oltre, che il concetto omnicomprensivo di “ambiente”, meglio se più compiutamente identificato in quello del «patrimonio naturale» di cui all’art. 1 comma 2 l. 2 dicembre 1991 n. 394[10], non sembra però accomunarsi, nella sua totalità, al diverso sistema di conservazione dei beni paesaggistici, così come disegnato dal legislatore[11].

L’esistenza di paesaggi culturali, risultanti da una trasformazione dell’ambiente (e dell’ecosistema) primitivo per effetto di attività economiche dell’uomo – per quanto arcaiche e tradizionali – pone anche il problema della collocazione temporale dell’asticella da elevare a ritroso nel tempo[12]. Ciò per valutare sino a che punto scegliere tra la conservazione (ed anche il sostegno, legislativo e finanziario) di una natura modificata comunque dall’uomo, rispetto all’opportunità (anche agli stessi fini di valorizzazione patrimoniale collettiva, magari per un’economia differente, come quella del turismo naturalistico) di un ripristino della naturalità anteriore quantomeno rispetto ai massimi picchi di “sfruttamento” delle risorse agro-silvo-pastorali, che sono stati considerevolmente aggressivi del paesaggio. Od anche, quanto sia diversamente proficuo, sempre in nome della priorità della tutela dell’ambiente nella sua totalità e non del mero aspetto “paesaggistico”, lasciare libera l’evoluzione dei processi naturali, nella consapevolezza che ciò comporterà una progressiva regressione di quanto modificato dall’uomo, anche nel corso dei secoli.

Non sfuggono in tal senso, al fine di rendere materialmente più comprensibile l’osservazione, gli studi sulla trasformazione secolare dei boschi tradizionali dell’Appennino centrale, ad esempio, dapprima in forza di una deforestazione legata allo sfruttamento della risorsa legnatica e, di seguito, alternata tra la coltivazione dei pascoli e dei boschi produttivi e la necessità di assicurare alle greggi transumanti gli spazi più opportuni per la loro alimentazione[13].

Ferma restando la tutela dell’uso civico in sé, che è sovraordinato anche rispetto alla pianificazione naturalistica nelle aree protette[14], si tratta di ponderare sino a che punto ciò corrisponda l’interesse più moderno ed attuale della tutela naturalistica.

L’affermazione sembra incrinarsi soprattutto ove non risulti attualizzato l’interesse economico allo sfruttamento degli assetti fondiari collettivi o, allorché questo sia comunque molto limitato, e ci si debba confrontare, invece, con un più ampio interesse naturalistico (Naturschutz) di ripristino dell’ambiente naturale originario, ed in particolare degli ecosistemi alterati almeno dai pesanti interventi umani più recenti, temporalmente collocabili a partire dall’Ottocento.

Beninteso, lo scontro tra le forze vettoriali che, da un lato, pretendono di sostenere le economie arcaiche delle attività agro-silvo-pastorali tradizionali e con esso il paesaggio che ne risulta culturalmente trasformato in tutta la sua positività (come la cura dei boschi, del sottobosco, lo sfalcio dei prati-pascolo, ecc.) e che, dall’altro, potrebbero sospingere verso un ripristino ad hoc dello status quo ante rispetto ai primi consistenti sfruttamenti antropici o, in alternativa, nella direzione della “libera evoluzione dei processi naturali”, non può essere liberamente dato. Sarebbe titanico e coinvolgerebbe la tutela di beni giuridici dotati della medesima dignità e tutela ordinamentale: dalla legislazione ordinaria, dalla Costituzione, dal legislatore europeo, dagli accordi pattizi internazionali[15].

Però, la questione può essere legittimamente posta (in termini di sistema e non certo perché strutturata su profili di tipo ideologico) in quelle aree di rilevante valore naturalistico (riconosciuto ex lege) e, per conseguenza, anche caratterizzate da un basso sfruttamento antropico, le quali possono propriamente rivelarsi come il luogo dove cercare l’equilibrio o la prevalenza tra le regole della tutela meramente paesaggistica (Landschaftspflege) rispetto alla più completa protezione della natura (Naturschutz). Dunque, è corretto riferirsi unicamente alle aree protette di cui alla l. 394/1991 ed alle c.d. Aree Natura 2000[16].

E la querelle deve essere letta anche in funzione del preponderante ritorno sulla scena naturale del Paese dei grandi carnivori (orso e lupo in primis) e della necessità di gestire alcune specie faunistiche[17], ricordando che il management della fauna selvatica tutta passa innanzitutto per quello degli habitat in cui vivono. «Foreste “disumane” per cervidi», del resto, è il leitmotiv proposto dagli zoologi per assecondare la gestione di tali specie, strettamente legate alla struttura dell’ambiente forestale[18].

  1. Quali usi civici?

Scrive esperta dottrina che le caratteristiche originarie dell’uso civico ed il suo strutturarsi in epoche assai risalenti nel tempo rendono «veramente difficile, per non dire impossibile, enumerare tutte le possibilità che astrattamente un territorio offre agli utilizzatori di esso»[19].

La ricostruzione storico-normativa delle forme di esercizio del diritto civico fa innanzitutto riferimento alla pastorizia, intesa come pascolo ed allevamento[20]. Ma anche a quelle forme di coltivazione non in senso stretto come il legnatico, il ghiandatico, il castagnatico, o la raccolta delle canne e delle pietre[21].

Ulteriori approfondimenti hanno permesso di meglio dettagliare una sorta di elencazione che annovera il prelievo di prodotti e specie selezionati, come gli alberi, per ricavarne legname da lavoro, legna per combustibile; oppure prodotti alimentari, come frutti, semi, miele (da favi naturali); o fogliame per foraggio, fibre, fogliame per strame o, ancora, altri prodotti forestali minori (gomme, succhi, resine, coloranti). Altre componenti vegetali possono costituire oggetto di prelievo, come l’erba per il foraggio, gli strami o altre piante, od anche tuberi e radici commestibili, frutti in genere, frutti spontanei di bosco.

E’ stato osservato, analizzando i sistemi di disciplina di tali forme di impiego dei prodotti della natura, che sovente sono state introdotte regole particolari, allo specifico fine di preservare nel tempo (per le generazioni future) la costante conservazione delle risorse attinte. Così, a volte, sono state poste limitazioni in funzione della condizione del prodotto rispetto al relativo stadio di sviluppo, della grandezza o della forma dello stesso, od anche in ragione di uno o più periodi in cui l’uso di raccolta o prelievo poteva dirsi lecito o impedito. In alcuni casi sono stati semplicemente imposti vincoli quali-quantitativi; in altri, il mezzo lecito da impiegarsi per la raccolta (roncole, falcetti, seghe), ha assunto la forma del limite stesso del prelievo[22].

Ai margini della consuetudine, e ben distinti dagli usi civici “maggiori” (il pascere, il legnare, il seminare), con la stessa sorte della multiforme varietà (e lettura) degli Arcani nei tarocchi[23], è data l’esistenza di altri usi “minori”, più o meno connessi a questi, come il far carbone, cuocere calce, estrarre torba, raccogliere pietra e ghiaia. Beninteso, sempre nella dimensione non intensiva o di mera impresa, ma in un’allocazione economica primigenia di tipo domestico o familiare, e comunque “collettiva”[24].

Ora, rispetto a questa possibile classificazione, occorre intendere la ratio della tutela paesaggistica degli usi civici.

Posto, invero, che, come affermato dagli stessi Giudici costituzionali, «la sovrapposizione fra tutela del paesaggio e tutela dell’ambiente si riflette in uno specifico interesse unitario della comunità nazionale alla conservazione degli usi civici, in quanto e nella misura in cui concorrono a determinare la forma del territorio su cui si esercitano, intesa quale prodotto di “una integrazione tra uomo e ambiente naturale”»[25], c’è da chiedersi se dove è individuato un uso civico vi coincide sempre e comunque la tutela paesaggistica o meno.

In altri termini, occorre valutare se è sufficiente la sopravvivenza di un fungatico, ghiandatico, o castagnatico[26] per aversi, legislativamente, un Kulturlandschaft assoggettato a tutela o se, piuttosto, la protezione paesaggistica degli usi civici deve ritenersi limitata a quelle forme che, nel tempo, hanno appunto trasformato stabilmente e visibilmente il paesaggio naturale[27].

Dinanzi a questo bivio, l’interprete ha davanti a sé due percorsi: fermarsi all’esegesi letterale, oppure andare oltre, traguardando la ratio espressa dal sistema normativo e dalla genesi della tutela così apprestata agli usi civici, quale Landschaftspflege.

Nel primo senso milita il disposto di cui all’art. 142 d.lgs. 42/2004 cit. Nel secondo appare di migliore completezza l’art. 2 comma 1 lett. e) l. 168/2017 sui domini collettivi, assoggettati a tutela in quanto «strutture eco-paesistiche del paesaggio agro-silvo-pastorale nazionale».

Ne discenderebbe l’affermazione secondo la quale non possono dirsi tutelati ex lege quegli usi che non hanno importato alcuna modificazione del paesaggio naturale. Anche se, in forza di quanto si dirà nel prosieguo, non appare nemmeno assolutamente indispensabile risolvere il dilemma in questione.

  1. Il paradosso normativo

Assunta l’endiadi assetti fondiari collettivi – tutela paesaggistica, a tratti forse troppo entusiasticamente sospinta verso il più ampio concetto della tutela ambientale[28], è doveroso scandagliare il dettato legislativo per verificarne la effettività e la profondità di tutela.

L’art. 146 comma 1 d.lgs. 42/2004, invero, reca il divieto, per i proprietari, possessori, detentori – a qualsiasi titolo – di aree di interesse paesaggistico, tutelate dalla legge, di distruggerli o di introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione.

Sull’impossibile “distruzione” si ha quasi una tautologia normativa, rispetto a quanto stabilito per gli assetti fondiari collettivi. E ciò, con particolare riferimento al disposto di cui all’art. 3 comma 3 l. 168/2017, che sottolinea l’inalienabilità, indivisibilità, inusucapibilità degli stessi e la specifica «perpetua destinazione agro-silvo-pastorale».

Quanto alle «modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione» il codice dei beni culturali mostra una non irrilevante distonia.

Premessa l’affermazione dell’art. 142 comma 1 lett. g) d.lgs. 42/2004, secondo cui (oltre alle zone gravate da usi civici) sono comunque beni paesaggistici «i territori coperti da foreste e da boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento»[29], appare invece poco coerente la disciplina degli interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica[30]. Per questi, per quanto attiene all’esercizio delle attività agro-silvo-pastorali, l’unico limite è rappresentato dall’«alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed altre opere civili» o dall’esecuzione di «opere che [non] alterino l’assetto idrogeologico del territorio».

Ancora più emblematica, nella direzione critica evidenziata, l’affermazione secondo cui non occorre l’autorizzazione paesaggistica per il taglio colturale, la forestazione, la riforestazione, le opere di bonifica, antincendio e di conservazione, purché previsti ed autorizzati in base alla normativa in materia (ex art. 149 comma 1 lett. c) d.lgs. 42/2004)[31].

Il livello di tutela apprestato, sic stantibus rebus, appare (come di consueto) di tipo meramente urbanistico ed edilizio.

Ed è abbastanza paradossale pensare che, da un lato, il paesaggio – quale risultato dell’opera di conformazione del Landscape naturale da parte dell’uomo nel corso della storia, in forza della sua utilizzazione economica collettiva – sia dichiarato genericamente assoggettato a tutela ma che, dall’altro, fatta eccezione per costruzioni ed edificazioni, la legge declini la propria protezione e si rimetta alle disposizioni di settore (in materia di pascolo e forestazione).

I tagli colturali, interventi di forestazione e riforestazione, tagli anticendio et similia non possono essere considerati indifferenti rispetto alla “conservazione del paesaggio” come conformato dall’uomo in forza dell’esercizio anche millenario di un uso collettivo.

Inutile soggiungere che un bosco può cambiare forma, qualità e dimensione, a seconda del tipo di attività di forestazione (o, più genericamente “uso”) che viene posta in essere. E, come già evidenziato, nel passato, al fine di preservare la conservazione inalterata dell’economia dell’uso civico nel tempo, sono state persino costruite delle precise regole per impedire uno sfruttamento non adeguato all’opportuno mantenimento di produttività, se non anche verso il doveroso trapasso generazionale.

L’obiettivo mirato si sposta così verso la vigente legislazione forestale, per verificare il livello di tutela apprestato, secondo la chiave di lettura in argomento.

Il d.lgs. 3 aprile 2018 n. 34, recante il vigente Testo unico in materia di foreste e filiere forestali, sotto questo profilo si rivela multiforme. Assunto il patrimonio forestale nazionale come parte del capitale naturale nazionale e quale bene di rilevante interesse pubblico da tutelare e valorizzare «per la stabilità e il benessere delle generazioni presenti e future», la normativa accomuna in un unico mosaico le diverse finalità della selvicoltura e della gestione forestale sostenibile, “al fine di riconoscere il ruolo sociale e culturale delle foreste, di tutelare e valorizzare il patrimonio forestale, il territorio e il paesaggio nazionale, rafforzando le filiere forestali e garantendo, nel tempo, la multifunzionalità e la diversità delle risorse forestali, la salvaguardia ambientale, la lotta e l’adattamento al cambiamento climatico, lo sviluppo socio-economico delle aree montane e interne del Paese”[32].

Lungi dal voler fare assiologia, nel testo unico forestale i plinti di fondazione sembrano essere costituiti dai concetti – abbastanza poco omogenei fra loro – della tutela, gestione e valorizzazione.

Per quanto attiene alla posizione rispetto agli assetti fondiari collettivi, l’espressione appare chiara ed inequivoca. Ai sensi dell’art. 10 d.lgs. 34/2018, «al fine di garantire la tutela e la gestione attiva delle risorse agro-silvo-pastorali, il miglioramento dei fondi abbandonati e la ricostituzione di unità produttive economicamente sostenibili in grado di favorire l’occupazione, la costituzione ed il consolidamento di nuove attività imprenditoriali, le regioni promuovono l’associazionismo fondiario tra i proprietari dei terreni pubblici o privati, anche in deroga al disposto di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, nonché la costituzione e la partecipazione ai consorzi forestali, a cooperative che operano prevalentemente in campo forestale o ad altre forme associative tra i proprietari e i titolari della gestione dei beni terrieri, valorizzando la gestione associata delle piccole proprietà, i demani, le proprietà collettive e gli usi civici delle popolazioni».

Nel mentre, una peculiare circolarità di ritorno con il codice dei beni culturali è corrisposta allorché è considerato vietato «ogni intervento di trasformazione del bosco che non sia stato preventivamente autorizzato, ove previsto, ai sensi dell’articolo 146 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42»[33].

Altri, per vero, sono i punti di contatto (rectius, i rinvii) con il d.lgs. 42/2004. Prevalentemente marginali, salvo la più ampia l’affermazione secondo cui «i piani forestali di indirizzo territoriale concorrono alla redazione dei piani paesaggistici» (art. 6 comma 3 d.lgs. 34/2018). Sembra mancare proprio una programmazione naturalistica del bosco (e del pascolo[34]) e, ovviamente, una corretta interferenza con il territorio delle aree naturali protette.

Scarni sono, infatti, i passaggi a ciò dedicati. Ai sensi dell’art. 6 comma 5 lett. c) d.lgs. cit., le regioni, con i piani forestali di indirizzo territoriale, definiscono “almeno” il «coordinamento tra i diversi ambiti e livelli di programmazione e di pianificazione territoriale e forestali vigenti, in conformità con i piani paesaggistici regionali e con gli indirizzi di gestione delle aree naturali protette, nazionali e regionali, di cui all’articolo 2 della legge 6 dicembre 1991, n. 394, e dei siti della Rete ecologica istituita ai sensi della direttiva 92/43/CEE del Consiglio del 21 maggio 1992». In virtù del successivo art. 7 comma 4 d.lgs. cit., «le regioni disciplinano, anche in deroga alle disposizioni del presente articolo, le attività di gestione forestale coerentemente con le specifiche misure in materia di conservazione di habitat e specie di interesse europeo e nazionale. La disposizione di cui al precedente periodo si applica, ove non già autonomamente disciplinate, anche alle superfici forestali ricadenti all’interno delle aree naturali protette di cui all’articolo 2 della legge 6 dicembre 1991, n. 394, o all’interno dei siti della Rete ecologica istituita ai sensi della direttiva 92/43/CEE del Consiglio del 21 maggio 1992 e di altre aree di particolare pregio e interesse da tutelare».

L’ampiezza di tutela del patrimonio naturale affidato agli enti parco in forza dei peculiari strumenti di gestione del territorio protetto di cui sono custodi sembra affidata fortuitamente alla locuzione: “ove non già autonomamente disciplinate” (di cui al menzionato art. 7 comma 4 d.lgs. 34/2018). Altrimenti anche le attività di forestazione sarebbero state sottratte (e rese sovraordinate) al sistema di tutela integrale di cui alla l. 6 dicembre 1991 n. 394.

  1. La tutela che non c’è: Naturschutz vs. Landschaftspflege

La tutela (Pflege) dell’uso civico come bene paesaggistico, da un punto di vista meramente ecologico, appare prestarsi ad una duplice lettura.

Da un lato, invero, essa potrebbe garantire il recupero di una interazione tra uomo e natura funzionale a determinati habitat. Si può citare a titolo di esempio il valore forestale delle «difese» o l’uso delle «capitozzature»[35] come sistemi di conservazione dell’arcaico “pascolo arborato”. Ma vi si può aggiungere anche il mantenimento dello sfalcio dei prati (di difesa dallo sviluppo degli arbusteti) o del mero pascolo, entrambi funzionali per la sopravvivenza di un certo tipo di fauna (come per la c.d. “tipica alpina”[36]).

Dall’altro, è di palmare evidenza, tuttavia, da un punto di vista meramente ecologico, come detto, che lo strumento normativo nel momento in cui pare occuparsene, di fatto se ne disfa. Questo aspetto è particolarmente palese per l’uso delle foreste e dei pascoli (e del rapporto fra le porzioni dei relativi territori)[37].

E ciò, soprattutto se l’uso civico diparte da un fotogramma di utilizzo del territorio che non si aggancia ad una oggettiva qualità artistica, storica, archeologica (etnoantropologica, archivistica o bibliografica, come strettamente per i beni culturali ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 42/2004)[38], ma ad una mera caratteristica “giuridica”.

Sottoporre a vincolo paesaggistico le “zone gravate da usi civici” o “i domini collettivi”[39] significa unicamente supporre un rilievo di Kulturlandschaft unicamente in forza dell’accertamento del regime giuridico di un bene immobile.

La dichiarazione degli assetti fondiari collettivi[40] quali beni paesaggistici passa unicamente, in ragione dello stretto percorso normativo, per la prova stessa dell’esistenza degli usi civici.

Ed il rigore normativo sovente scatta un fotogramma dell’esistente, sulla base delle caratteristiche di inalienabilità ed imprescrittibilità del bene, con la conseguenza di attualizzare un uso magari cessato nel tempo, e dunque da ricostruire nelle sue forme e modalità, e con l’effetto di creare ex novo una rimodulazione dell’ambiente naturale che frattanto ha potuto subire un processo di rinaturalizzazione spontanea o, peggio, di ulteriore manomissione da parte di diverse ed ulteriori attività antropiche (si pensi a quelle edilizie e, dunque, all’istituto della reintegra[41]).

Nella migliore delle ipotesi l’accertamento consegue ad una stabilizzazione sette-ottocentesca del paesaggio culturale o verifica quel che oggi ne rimane, al cospetto di un impiego che sovente ha cessato di possedere uno spiccato rilievo economico e sociale.

Sembrerebbe sfuggire, per vero, affinché gli usi civici possano logicamente dirsi “beni culturali”, quel salto di qualità che dall’accertamento di un Kulturlandschaft conduce verso la scoperta di un Naturdenkmal[42], pur di secolare creazione antropica.

Valga, allora, la riflessione di Hansjörg Küster: «senza capire a fondo la formazione dell’identità paesaggistica si corre il rischio di perseguire delle mete idealistiche nella tutela del paesaggio, trasformando l’oggetto protetto in qualcosa che in precedenza non è mai esistito»[43].

Cosa manca, nella legislazione, per rispondere e rimediare all’affermazione del noto studioso tedesco? Un meccanismo normativo più attento rispetto alla generalizzazione della tutela paesaggistica introdotta con la “Legge Galasso”[44] e, soprattutto, un passaggio di gestione naturalistica a tutto tondo che non può essere meramente “scaricato” sulla legislazione forestale.

Senza rimestare, dunque, nella vecchia diatriba tra la tutela paesaggistica e la protezione (Schutz) della natura[45], dunque tra Landschaftsplfege e Naturschutz[46], è l’evoluzione storica dei boschi italiani a descrivere la “piattaforma ecologica” su cui appoggiare una più accorta riflessione.

Prendendo a modello la situazione boschiva dell’Italia centrale, è già a partire dal 1700 che si è innescato un forte processo di deforestazione, per effetto di una costante crescita demografica e in forza dei provvedimenti eversivi della feudalità, ma anche per il mero interesse degli stessi feudatari (poi latifondisti) che ritenevano più proficuo l’impiego in colonìa dei terreni coltivati rispetto ai suoli forestali[47]. Questo fenomeno ha eroso anche i boschi ed i pascoli montani, con la messa a coltura di terreni posti sino alle quote più elevate. Paradossalmente anche le «difese» (poco sopra menzionate) sono cadute sotto la scure della quotizzazione per la coltivazione[48].

Intorno alla metà dell’Ottocento, si è verificato un ulteriore picco di deforestazione, a seguito di un’altra forte crescita demografica e della crisi della pastorizia transumante, con un ulteriore trasformazione del paesaggio e degli stessi territori montani[49].

Il minimo storico della forestazione, anche in ragione della “campagna del grano” promossa nel periodo fascista, sembra attestarsi fra le due guerre. I boschi sono stati “devastati” nell’arco temporale che intercorre fra la fine dell’Ottocento e sino alla fine della Seconda guerra mondiale, non solo per la produzione di legname (di cantiere e non) indispensabile per la costruzione delle linee ferroviarie e delle grandi infrastrutture, ma anche come combustibile per i vari opifici: dalle fornaci alle “calcare”, dalle fonderie alle tintorie, et coetera.

Nonostante l’emigrazione e l’esodo delle popolazioni delle aree interne, nel dopoguerra i boschi dell’appennino centrale sono ancora una volta attaccati per un devastante sfruttamento economico da parte di attrezzate imprese di forestazione[50].

Alquanto diversa la situazione negli altri paesi d’Europa. In Germania, ad esempio, la riforestazione è stata, nel tempo, persino mitizzata[51].

Rispetto a questa distruzione (e trasformazione) oggettiva dei boschi e dei pascoli, secondo una continua modificazione del paesaggio naturale originario, sin quanto è lecito fissare come “bene paesaggistico” quel che risulta per l’effetto “anche” di un pesantissimo sfruttamento antropico, sol perché accomunato ad una qualifica giuridica specifica?

Il paesaggio definito da un assetto fondiario collettivo, infatti, potrebbe avere un valore storico-culturale, ma non necessariamente possedere un rilievo né naturalistico, né di tutela ambientale a tutto tondo[52].

  1. L’ossimoro della sovraordinata pianificazione paesaggistica nelle aree protette

Ritorna, così, in primo piano, la distinzione più sopra accennata. Non è di secondo piano, invero, lo scostamento tra la tutela paesaggistica (Landschaftspflege) rispetto alla protezione dell’ambiente nella sua totalità naturale (Naturschutz), a seconda dell’oggetto essenziale preso in considerazione[53].

Già vi sfugge la stessa “storia del bosco”, che non è quella «di indicare uno stato concreto e stabile della condizione naturale, bensì quello di comunicare che l’evoluzione naturale di ecosistema come il bosco è dinamica e basata sul cambiamento. Dunque, in natura non esiste alcuna situazione di bosco stabile a lungo termine; vi domina infatti un eterno, sebbene lento, mutamento della compagine forestale»[54]. Appuntare sul bosco il concetto della tutela paesaggistica appare, dal punto di vista ecologico, stante i contenuti della normativa di settore, alquanto limitante[55].

Ma quel che dirime la contesa è il confine tra la protezione integrale (che muove dalla supremazia del valore naturalistico) e la tutela comparativa (ove il valore ambientale è subordinato, o anche equiordinato e “comparato” con altri valori, oggi ricompresi nel concetto di «sviluppo sostenibile»[56]).

La tutela paesaggistica non assicura una protezione integrale della natura.

Lo confermano plurimi orientamenti della Consulta, che fanno riferimento all’esigenza di un bilanciamento ed un contemperamento dei “valori in gioco”: quelli del paesaggio, della cultura, della salute, della conformità dell’iniziativa economica privata all’utilità sociale, della funzione sociale della proprietà da una parte, e quelli, pure di fondamentale rilevanza sul piano della dignità umana, dell’abitazione e del lavoro, dall’altra[57].

Eppure, l’unica fonte legislativa che assicura la primarietà dell’interesse naturalistico è rappresentata proprio dalla legge quadro sulle aree protette. La stessa, però, è gravata da due limiti.

Il primo è interno allo stesso testo normativo, e dunque frutto di apposita scelta del legislatore dell’epoca, secondo cui “comunque” all’interno del territorio protetto sono fatti salvi «i diritti reali e gli usi civici delle collettività locali, che sono esercitati secondo le consuetudini locali»[58]. Come affermato, l’esercizio di diritti di uso civico può essere funzionale al mantenimento di determinati habitat, e in tale direzione nulla quaestio[59]; oppure può costituire un ostacolo per una modificazione che si dovesse rendere necessaria per altre esigenze, come quelle di gestione faunistica o per l’esigenza di ripristinare di ambienti naturali originari[60]. In questo ultimo caso, avendo già la legge stabilito che la modalità di esercizio degli usi civici è quella dettata dalle “consuetudini locali”, non essendo cioè comprimibile ulteriormente in forza di ulteriori e specifiche previsioni del regolamento, un’eventuale, diverso e preminente interesse di tutela naturalistica può essere perseguito solo con le forme di cui all’art. 15 della l. 394/1991. E’ ammessa, invero, la possibilità che i beni di demanio civico siano fatti oggetto di alienazione o di espropriazione[61], per cui l’ente parco ben potrebbe ricorrere alle facoltà concessegli dall’art. 15 in parola.

Ma il vulnus più importante sembra essere oggi rappresentato dalla subordinazione del piano per il parco alla pianificazione paesaggistica[62]. Ai sensi dell’art. 145 comma 4 d.lgs. 42/2004 «gli enti gestori delle aree naturali protette conformano o adeguano gli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani paesaggistici, secondo le procedure previste dalla legge regionale»[63].

Già, nella vigenza della “Legge Galasso”, la subordinazione della pianificazione integrale alla tutela paesaggistica aveva suscitato non poche obiezioni da parte della dottrina[64].

Contro il dato normativo attuale milita un argomento in diritto, non agevolmente valicabile, secondo cui, a dire del Giudice delle leggi, «secondo il disegno del legislatore costituzionale, da una parte sono affidate allo Stato la tutela e la conservazione dell’ambiente, mediante la fissazione di livelli “adeguati e non riducibili di tutela” (sentenza n. 61 del 2009) e dall’altra compete alle Regioni, nel rispetto dei livelli di tutela fissati dalla disciplina statale (sentenze n. 62 e n. 214 del 2008), di esercitare le proprie competenze, dirette essenzialmente a regolare la fruizione dell’ambiente, evitando compromissioni o alterazioni dell’ambiente stesso. In questo senso può dirsi che la competenza statale, quando è espressione della tutela dell’ambiente, costituisce “limite” all’esercizio delle competenze regionali (sentenze n. 180 e n. 437 del 2008 nonché n. 164 del 2009)»[65].

E’ difficile, per l’effetto, sostenere ex lege, senza il sospetto di una pesante contrarietà a costituzione, che i piani per i parchi “nazionali”, il cui fine primario (oltre alla stessa gerarchia interna dei valori sottoposti a protezione) è in ogni caso quello della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (art. 117 comma 2 Cost.) debbano “adeguarsi” alle previsioni dei “piani paesaggistici”, che vengono approvati dalle Regioni.

In fatto, sulla base delle argomentazioni sin qui svolte e premesso il potenziale – ma assurdo e distonico – conflitto tra il rilascio del nulla osta dell’ente parco ed il diniego dell’autorizzazione paesaggistica (maggiormente al “calor bianco”, qualora si tratti di interventi eseguiti direttamente dall’Ente parco per lo svolgimento – magari indispensabile dei propri compiti istituzionali di tutela del patrimonio naturalistico protetto[66]), è opportuno riferirsi ad un esempio concreto per stabilire quanto sia inopportuno e paradossale l’assoggettamento della pianificazione naturalistica a quella paesaggistica.

Si pensi, invero, che nel parco nazionale bavarese del Berchtesgaden è in corso una complessa opera di sostituzione della componente forestale con la progressiva rimozione dei boschi (ex) produttivi di abete rosso – tipici di “quel” paesaggio da almeno qualche secolo, nonché fonte della stessa economia tradizionale alpina – con le essenze “originarie” di faggio ed abete bianco, giacché la componente boschiva di abete rosso sta ineluttabilmente venendo meno a causa del flagello del Bostrico tipografo (Ips typographus, detto anche Bostrico dell’abete rosso)[67].

Secondo la costruzione normativa vigente in Italia, un analogo intervento forse sarebbe impossibile, oppure possibile solo se le “autorità paesaggistiche”, benevolmente[68], comprendessero la problematica dal punto di vista strettamente ecologico e deponessero la stretta osservanza normativa dell’interesse alla tutela del “bel paesaggio”, risultante dall’interazione tra uomo e ambiente, declinando la conservazione del Kulturlandschaft verso la primarietà del Naturschutz[69].

Oltretutto, se la seguente è la classificazione dei “parchi nazionali” secondo l’Unione internazionale per la conservazione della natura: Cat. II National parks: «large natural or near natural areas set aside to protect large-scale ecological processes, along with the complement of species and ecosystems characteristic of the area, which also provide a foundation for environmentally and culturally compatible spiritual, scientific, educational, recreational and visitor opportunities»[70], è alquanto difficile pensarvi sovraordinata la pianificazione (e l’autorizzazione) paesaggistica, anche solo per la mera presenza di boschi o di usi civici.

Una via di uscita dall’attuale e scomodo impasse poteva essere data se la classificazione delle aree protette fosse stata vicina a quella della Cat. V IUCN “Protected landscape[71] o assimilabile a quella in vigore nella legislazione tedesca, ove possono assumere la forma di Naturschutzgebiet, Nationalpark, Landschaftsshutzgebiet, Naturpark, Naturdenkmal, Geschutztes Landschaftsbestandteil[72].

In realtà la legge quadro sulle aree protette ha la totalità degli strumenti per poter agire anche a difesa delle medesime istanze tutelate dagli assetti fondiari collettivi. Vi è, invero, già prevista la «salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici e architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali e tradizionali»[73]. E, così, il piano per il parco, contempla le «aree di protezione nelle quali, in armonia con le finalità istitutive ed in conformità ai criteri generali fissati dall’Ente parco, possono continuare, secondo gli usi tradizionali ovvero secondo metodi di agricoltura biologica, le attività agro-silvo-pastorali nonché di pesca e raccolta di prodotti naturali»[74].

La l. 394/1991 possiede un elemento di forza ulteriore, che è dato dalla centralità dell’interesse naturalistico, che va oltre il concetto di “bellezza” di paesaggio[75] e penetra nella più ampia nozione di tutela dell’ecosistema[76]. Giacché, ai sensi degli artt. 9 e 32 Cost garantisce e promuove, in forma coordinata, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale del paese, perseguendo in primis la finalità di conservazione di specie animali o vegetali, di associazioni vegetali o forestali, di singolarità geologiche, di formazioni paleontologiche, di comunità biologiche, di biotopi, di valori scenici e panoramici, di processi naturali, di equilibri idraulici e idrogeologici, di equilibri ecologici[77].

In sintesi, la legge quadro sulle aree protette non sminuisce la funzione degli assetti fondiari collettivi, ma la completa con la tutela a tutto tondo dell’ambiente, nella direzione di una finalità più ampia di tutela che guarda in primis all’ecosistema e, nel contempo, non rimane “vittima” delle più volte avvertite e gridate inefficienze della mera gestione paesaggistica dell’ambiente.

Da ultimo occorre aggiungere che, seppure il profilo normativo appare dissimile, un ragionamento analogo può essere condotto per le c.d. “Aree Natura 2000”.

Il recepimento della Direttiva 92/43/CEE, relativa alla Conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche, a mezzo del d.p.r. 8 settembre 1997 n. 357 ha anteposto in maniera tecnico-scientifica[78] le esigenze prioritarie della conservazione di habitat e specie “in indirizzo”[79], per cui ogni intervento di carattere antropico è subordinato ad una valutazione degli effetti che piani (urbanistici, territoriali o di settore) ed interventi possono avere o riverberare sui siti ove ricadano tipi di habitat naturali e specie prioritari ai sensi della medesima normativa. Il giudizio di “bilanciamento” degli interessi di natura economica, tipico della tutela comparativa, si arresta unicamente dinanzi a «motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale ed economica», per cui le amministrazioni competenti adottano ogni misura compensativa necessaria per garantire la coerenza globale della rete “Natura 2000”[80].

Il risultato che ne viene è che sia la pianificazione paesaggistica quanto gli “interventi” di uso civico in sé (anche quelli, ad esempio, relitti dall’autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 149 d.lgs. 42/2004) devono essere ineluttabilmente assoggettati alla valutazione d’incidenza, con ogni conseguenza di legge.

  1. Considerazioni di sintesi.

E’ stato sin qui implicitamente sostenuto che il dato normativo di cui alla l. 168/2017, nella parte in cui ha inteso definire i domini collettivi «strutture eco-paesistiche del paesaggio agro-silvo-pastorale nazionale», nonché «strumenti primari per assicurare la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale nazionale» e «componenti stabili del sistema ambientale»[81], unitamente alla progressiva evoluzione della giurisprudenza costituzionale in tema di usi civici[82], avrebbe di fatto spostato la sostanza del bene paesaggistico, dal mero “elemento territoriale” (oggetto dell’uso o del dominio) alla valorizzazione della pratica dell’uso in sé, che ha determinato ed è in grado di ulteriormente conservare la forma dell’ambiente così come scolpita dall’uomo nel corso dei secoli.[83].

Non sembra più sufficiente, dunque, il contenuto descrittivo di cui all’art. 2 comma 3 d.lgs. 42/2004, nella parte in cui limita l’essenzialità dei “beni paesaggistici” agli immobili e alle «aree indicate all’articolo 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge». Ma è l’uso civico in sé ad essere “bene paesaggistico”, e quindi a costituire il “patrimonio culturale”[84]. Ciò in quanto il dato economico e sociale integra quello meramente paesistico, trasportando il sintagma del semplice Landschaft verso quello del Kuturlandschaft[85].

La struttura della l. 168/2017, peraltro, potrebbe indurre a far scivolare la incerta natura dei domini collettivi verso un’ipotesi molto spinta di Gesamthandsgemeinschaft[86], tendente ad  avvicinarsi alla teoria dei beni comuni[87], nella parte in cui di questi sono messi in evidenza le caratteristiche relazionali o addirittura politiche, sostenendo che «i beni comuni sono resi tali non da presunte caratteristiche ontologiche, oggettive o meccaniche che li caratterizzerebbero, ma da contesti in cui essi divengono rilevanti in quanto tali»[88]. Sembra andare nella stessa direzione la più completa affermazione: «governare i beni comuni, in particolare le risorse naturali, impone una prospettiva universalistica, in base alla quale, il soggetto titolare del diritto di fruire i beni comuni è l’umanità nel suo intero, concepita come un insieme di individui eguali»[89]. Purtuttavia, non solo l’ideologia dei beni comuni manca ancora di adeguato sostegno normativo, ed è perciò stata criticamente definita una «categoria dello spirito»[90], ma la dottrina non appare univoca in ordine all’accettazione della teoria in sé[91], in particolare con riferimento al territorio delle aree protette, che, per quanto attiene al presente lavoro, rappresenta il metro di piombo, impiegato nella misurazione della profondità dell’adeguatezza della tutela paesaggistica degli usi civici rispetto alla più ampia categoria della protezione della natura. Difficile non condividere, sul punto, l’assunto secondo cui «il diritto della natura e delle aree protette ha come destinatario non comunità o individui umani, ma un bene senza proprietà e senza padrone, il patrimonio naturale, il quale è sottratto non solo all’applicazione del diritto dell’ambiente, ma anche ai regimi proprietari e, salvo caute eccezioni, a diritti di fruizione individuale e collettiva»[92].

Svolte queste considerazioni, ed assunto un primario e superiore valore naturalistico in aree (Gebiete) determinate, come quelle di cui alla l. 394/1991 o alla Direttiva 92/43/CEE, ove si applica il sistema di protezione integrale del patrimonio naturalistico (e, dunque, non soltanto culturale), la conservazione e la valorizzazione degli assetti fondiari collettivi intesi quali beni paesaggistici può essere sì un utile ed ulteriore elemento di tutela, ma solo allorché sia confacente agli obiettivi stabiliti negli strumenti di gestione. Non potendo, al contrario, l’esistenza di un bene paesaggistico costituire un limite verso la più ampia e profonda conservazione della natura, fatta di habitat ed ecosistemi specifici, mutevoli o modificati nel tempo, e che vanno riponderati e non meramente “congelati” come in un fotogramma, nella eventuale direzione del ripristino di un’ambiente diversamente originario o nel laissez faire, laissez passer ad opera degli stessi processi naturali.

[1] D.l. 27 giugno 1985 n. 312, convertito con modificazioni dalla l. 8 agosto 1985 n. 431.

[2] Ma anche:  “i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i terreni elevati sul mare; i territori contermini ai laghi compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i territori elevati sui laghi; i fiumi, i torrenti ed i corsi d’acqua iscritti negli elenchi di cui al testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna; le montagne per la parte eccedente 1600 metri sul livello del mare per la catena alpina e 1200 metri sul livello del mare per la catena appenninica e per le isole; i ghiacciai e i circhi glaciali; i parchi e le riserve nazionali o regionali, nonché i territori di protezione esterna dei parchi; i territori coperti da foreste e da boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento; le zone umide incluse nell’elenco di cui al decreto del Presidente della Repubblica 13 marzo 1976, n. 448; i vulcani”.

[3] In proposito, si veda il recente saggio di G. Severini, “Paesaggio”: storia italiana, ed europea, di una veduta giuridica, in Aedon, 1, 2019.

[4] «Il paesaggio naturale, anche quello rigorosamente, esclusivamente naturale, è Kulturlandschaft quanto lo è quello umano, in quanto il paesaggio naturale viene umanizzato nella sua percezione, nel suo significato, diventa produzione umana sotto il profilo interpretativo o, se vogliamo, estetico, così come lo è oggettivamente quello determinato dall’azione dell’uomo. Nell’uno e nell’altro aspetto, come dicevo, il paesaggio è condizionato dalla struttura sociale. Ma, a sua volta, nell’uno e nell’altro aspetto condiziona l’esperienza e l’esistenza della comunità che vive in quell’ambiente» (così, A. Predieri, Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, in Studi per il ventesimo anniversario dell’assemblea costituente, vol. II, Firenze 1969, 10, citato allo stesso modo da G. Cerina Ferroni, Il paesaggio nel costituzionalismo contemporaneo. Profili comparati europei, in questa Rivista, n. 8/2019, 3).

[5] Scrive L. Fulciniti, I beni d’uso civico, Padova 2000, 266: «se le altre cose sono beni paesaggistici da tuteare dall’intervento antropico, i beni d’uso civico sono, a mio avviso, tutelati come intervento antropico».

[6] Reg. (UE) n. 1305/2013 del 17 dicembre 2013 sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR). In tema di valorizzazione del paesaggio, come elemento dissimile ed ulteriore rispetto alla mera “tutela”, v. G. Severini, La valorizzazione del paesaggio, in questa Rivista, n. 11/2006.

[7] Ex multis, si veda L. Fulciniti, I domini collettivi tra archetipi e nuovi paradigmi, in Diritto agroalimentare, Milano 2018, fasc. 3, 547 ss.; ma anche G. Di Genio, Gli usi civici nella legge n. 168 del 2017 sui domini collettivi: sintonie e distonie attraverso la giurisprudenza costituzionale e il dibattito in sede Costituente, in questa Rivista, n. 18/2018, 1 ss.; nonché il recentissimo lavoro di F. Marinelli – F. Politi (a cura di), Domini collettivi ed usi civici. Riflessioni sulla legge n. 168 del 2017, Pisa 2019, passim.

[8] Così l’art. 2 comma 1 l. 168/2017 cit., quanto alla “giustificazione” per la tutela e la valorizzazione dei «beni di collettivo godimento».

[9] Si veda Corte cost. 22 luglio 1998 n. 316, sulla «riconsiderazione assidua del territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico culturale (ordinanza n. 68 del 1998), accompagnata dalla esigenza di salvaguardare una serie di zone che si sono conservate nel loro stato naturale o tradizionale. Tra queste zone assumono rilievo le aree di proprietà delle università agrarie ovvero quelle assoggettate ad usi civici, che, proprio per l’esistenza di obblighi correlati al carattere di comunità con rilevanza anche pubblicistica, sono rimaste destinate ad usi agricoli, agro-silvo-pastorali tradizionali o, per la maggior parte, conservate nelle destinazioni che consentono usi collettivi (pascolo, legnatico ecc.)».

[10] Ai sensi di tale disposizione, «costituiscono il patrimonio naturale le formazioni fisiche, geologiche, geomorfologiche e biologiche, o gruppi di esse, che hanno rilevante valore naturalistico e ambientale». Sul punto G. Di Plinio, Diritto pubblico dell’ambiente e aree naturali protette, Torino 1994, 142 s. ha precisato che tale disposizione non si insinua con intento modificativo nella ineluttabile dicotomia tra proprietà pubblica e proprietà privata, come palese sullo sfondo dell’art. 42 Cost., trasportando le aree protette verso forme di proprietà collettiva o costruendo la natura come centro autonomo di imputazione giuridica, ma semplicemente disegna sul territorio aree speciali alle quali applicare «uno speciale regime di protezione e tutela» (corsivo dell’A.).

[11] Peraltro, la locuzione “ambiente” non appartiene al “Codice dei beni culturali”, che si sofferma unicamente sull’ancipite distinzione tra paesaggio e bene paesaggistico. La parola, per vero, compare soltanto all’art. 45 del d.lgs. 42/2004, allorché si sostiene che «Il Ministero ha facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l’integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro». Si veda anche l’opinione critica di C. Desideri, Paesaggio e paesaggi, Milano 2010, 49 ss.

[12] Per S. Settis, Paesaggio Costituzione Cemento, Torino 2010, 66 e 142 il paesaggio è la geografia volontaria che l’uomo plasma e muta incessantemente intorno a sé, perciò le «belle contrade» del paesaggio italiano hanno una nascita e una storia: «è un paesaggio storicizzato, ‘pittorico’, in piena continuità (e mutuo rispecchiamento) con quello di quadri, affreschi, e con quello descritto ed evocato da poeti e scrittori non solo italiani».

[13] E’ già Ignazio Silone a raccontarlo, nel suo Fontamara. Per una trattazione scientifica si rinvia a A. Manzi, Storia dell’ambiente nell’Appennino centrale. La trasformazione della natura in Abruzzo dall’ultima glaciazione ai nostri giorni, Treglio 2013, passim, in part. 239 ss.

[14] Ai sensi dell’art. 11 comma 5 l. 394 cit., invero, rispetto ai divieti generali ed alla regolamentazione delle attività consentite di esercizio nel territorio dei parchi nazionali, sono esclusi i diritti reali e gli usi civici delle collettività locali, che sono esercitati secondo le consuetudini locali. Sono solo i diritti esclusivi di caccia delle collettività locali o altri usi civici di prelievi faunistici a dover essere liquidati dal competente commissario ad istanza dell’ente parco. Per verità, tuttavia, già dopo il r.d. 5 giugno 1939 n. 1016 e maggiormente dopo la l. 11 febbraio 1992 n. 157, non sembra che possano dirsi più esistenti gli usi civici in materia di caccia (così F. Marinelli, Gli usi civici, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da Cicu e Messineo, II ed., Milano 2013, 246 s., che richiama in nota L. Fulciniti, I beni d’uso civico, cit., 136, la quale nota l’avvenuta scomparsa, nella caccia, di ogni contenuto legato alle necessità alimentari dell’uomo).

[15] Si pensi già alla stessa Convenzione europea del paesaggio, adottata dal Consiglio d’Europa il 19 luglio 2000, su cui, in generale G. F. Cartei (a cura di), Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, Bologna 2007.

[16] Di cui alla Dir. 92/43/CEE sulla Conservazione degli habitat naturali della fauna e della flora selvatiche, del 21 maggio 1992.

[17] In particolare, quelle che sono diventate “più che problematiche”, come il cinghiale, in espansione anche per via della scomparsa dei paesaggi agrari tradizionali, con la loro trasformazione in macchie ed arbusteti immediatamente adiacenti a campi coltivati, centri urbani, vie di comunicazione. Sulla incuria verso i terreni incolti ed abbandonati, v. R. Fuzio, I paesaggi rurali e la loro valorizzazione e salvaguardia, in D. Granara (a cura di), Tutela paesistica e paesaggio agrario, Torino 2017, 60.

[18] F. Perco, Foreste “disumane” per cervidi, in L’Italia Forestale e Montana, 2009 n. 64 (2), 73, di cui si trascrive di seguito il particolare abstract: «La Foresta, intesa quale bosco in senso allargato, ospita oggi non solo Animali Non Umani ma anche Animali Umani totalmente di- staccati dall’ecosistema forestale. Boschi, selve e foreste, pur con significati diversi, avevano in passato un profondo significato simbolico e costituivano luoghi d’iniziazione. Oggi, questo loro potere è svanito. Alla luce delle esigenze generali dei Cervidi (qui descritte brevemente), si sostiene che è necessario passare da una gestione passiva, fondata spesso da programmi di fruizione turistica non formatori e diseducanti, ad una gestione attiva. Considerando l’antico potere simbolico del Cervo e quello nuovo ma altrettanto importante del Capriolo, sarà necessario riconsiderare la foresta come luogo specialmente vocato per una nuova educazione e formazione alla Natura. L’Uomo che si addentra in una Foresta per Cervidi (o per altre specie) dovrà, allora, in futuro, «disumanizzarsi» e riprendere, nella Selva, quel percorso iniziatico – quindi formativo – che ha oggi smarrito. Sono esposti di seguito alcuni suggerimenti pratici per far sì che l’Uomo sperimenti, sempre alla luce delle esigenze biologiche dei Cervidi, quell’antico legame con la Foresta e con ciò che è Selvatico».

[19] Così F. Marinelli, Gli usi civici, cit., 235.

[20] Con gli usi accessori, come quello di abbeverare il bestiame, nelle acque libere e fontanili, pubblici o privati che fossero, o di raccogliere legna (per gli usi caseari o di quotidianità) ed accamparsi nei pressi delle greggi, spesso mediante l’erezione di ricoveri in legno e/o pietre. In quest’ultimo caso si parla anche di ius casalinandi, che identificherebbe il diritto di costruire abitazioni rurali, per lo più ricoveri per pastori appunto («occupare suoli per costruirvi abitazioni», ai sensi dell’art. 3 r.d.l. 22 maggio 1924 n. 751)

[21] F. Marinelli, op. ult. cit., 240.

[22] Per quest’analisi, si rinvia a P. Nervi, Aspetti economici della gestione delle terre civiche nella realtà attuale, in Dir. e giur. agr. e ambiente, 1997, 364.

[23] Sia consentito l’ironico riferimento ad I. Calvino, Il castello dei destini incrociati: Milano 2016, 8: «Prendemmo a spargere le carte sul tavolo, scoperte, come per imparare a riconoscerle, e dare loro il giusto valore nei giochi, o il vero significato nella lettura del destino».

[24] Vale riportare la distinzione dei diritti di uso civico riportati ai fini della liquidazione dall’art. 3 r.d.l. 22 maggio 1924 n. 751: «1° essenziali, se riguardano lo stretto uso personale necessario al mantenimento dei cittadini; 2° utili, se comprendono oltre l’uso necessario personale una parte eziandio di industria; 3° dominicali, se importano partecipazione ai frutti ed al dominio del fondo. Alla prima classe appartengono i diritti di pascere, abbeverare il bestiame, pernottare con questo, coltivare con una corrisposta al proprietario, far legna per lo stretto uso del fuoco, per gli istrumenti rurali e per la riparazione delle abitazioni, nonché quelli di cavar pietre e fossili di prima necessità ed occupare suoli per costruirvi abitazioni. Alla seconda classe appartengono oltre i diritti suddetti anche gli altri di utilità, come quelli di far legna per venderla nel Comune, raccogliere ghiande cadute o castagne, pascere per uso proprio o del proprietario sia in tutto il comprensorio del terreno, sia in una parte di esso, scuotere i frutti pendenti, mandarvi animali a soccio, cuocere calce pel commercio ed essere preferito ai compratori d’altro Comune nella vendita e nel consumo dei frutti del comprensorio stesso. Alla terza classe appartengono i diritti di far piante ortilizie senza prestazione, seminare grano per uso proprio o marzatici indistintamente e senza corrisposta o con una così tenue che mostri di essere una semplice ricognizione di dominio, partecipare al diritto di fida e diffida od all’introito dei terraggi o delle coverte e dei frutti destinati alla vendita, fissare in ogni anno la corrisposta che i cittadini debbono pagare al proprietario per ghiande, castagne e simili».

[25] Corte cost., 20 febbraio 1996 n. 46.

[26] O anche l’ormai rara e perduta tradizione di Vallepietra (Rm) dello scortecciamento, in forza del quale gli abitanti erano soliti arrotondare i loro redditi costruendo canestri di corteccia che andavano poi a vendere a Roma.

[27] Sembrerebbe andare in questa direzione l’affermazione di L. Fulciniti, op. ult. cit., secondo cui i beni di uso civico sono tutelati come «intervento antropico».

[28] In tal senso Corte cost., 10 aprile 2018 n. 113, ove si legge: «l’utilizzazione non intensiva del patrimonio civico e il regime di imprescrittibilità e inalienabilità sono contemporaneamente causa ed effetto della peculiare fattispecie che il legislatore ambientale intende preservare, precludendo soluzioni che sottraggano tale patrimonio alla sua naturale vocazione (sentt. nn. 391 del 1989, 46 del 1995, 352 del 2001, 51 del 2006, 25, 349, 367 del 2007, 164, 226, 295 del 2009, 123 del 2010, 66, 207 del 2012, 210 del 2014, 103 del 2017)».

[29] Cfr. già N. Ferrucci, Il bene forestale come bene ambientale e paesaggistico, in A. Crosetti – N Ferrucci, Manuale di diritto forestale e ambientale, Milano 2008, 562 ss.

[30] Di cui all’art. 149 d.lgs. 42/2004.

[31] Per un profilo critico ed esegetico su quest’espressione (risalente già alla l. 431/1985), che soffre di genericità e di scarsa conoscenza della materia forestale, v. A. Abrami, Boschi e foreste, in Dig. disc. pubbl., II, Torino 1987, 381.

[32] Ai sensi dell’art. 1 commi 1 e 3 d.lgs. 34/2018. La disciplina normativa previgente comunque era «caratterizzata e variegata in relazione alle diverse funzioni che il bosco esercita, sia come strumento di difesa idrogeologica del territorio, sia come bene produttivo, sia, ancora, come componente la bellezza del paesaggio» (A. Abrami, op. cit., 374).

[33] Art. 8 comma 2 d.lgs. 34/2018, sulla disciplina della trasformazione del bosco.

[34] Ciò, considerato che il d.lgs. 34/2018 all’art. 3 contribuisce anche a definire: il «prato o pascolo permanente» (le superfici non comprese nell’avvicendamento delle colture dell’azienda da almeno cinque anni, in attualità di coltura per la coltivazione di erba e altre piante erbacee da foraggio, spontanee o coltivate, destinate ad essere sfalciate, affienate o insilate una o più volte nell’anno, o sulle quali è svolta attività agricola di mantenimento, o usate per il pascolo del bestiame, che possono comprendere altre specie, segnatamente arbustive o arboree, utilizzabili per il pascolo o che producano mangime animale, purché l’erba e le altre piante erbacee da foraggio restino predominanti); il «prato o pascolo arborato» (le superfici in attualità di coltura con copertura arborea forestale inferiore al 20 per cento, impiegate principalmente per il pascolo del bestiame) ; il «bosco da pascolo» (le superfici a bosco destinate tradizionalmente anche a pascolo con superficie erbacea non predominante).

[35] Le «difese» sono costituite da boschi radi costituiti da alberi di grandi dimensioni (faggi, mele, peri selvatici e querce) riservati principalmente al pascolo degli animali da lavoro o al bestiame non transumante per la produzione di cibo aggiuntivo per gli armenti che si nutrono già delle erbe che crescono nelle stesse chiarìe del bosco. E gli alberi in questione non possono essere abbattuti ma soltanto “capitozzati”, pratica che determina la trasformazione della loro forma naturale in quella più ampia e frondosa detta “a candelabro”. Per un approfondimento, A. Manzi, op. cit., 103, 242 s.

[36] Ad esempio, sul recupero degli ex ambienti pascolativi e prativi per il miglioramento degli habitat riproduttivi del fagiano di monte, v. A. Brugnoli – M. Gianesini, Un’esperienza di progettazione di interventi di miglioramento ambientale per il Fagiano di monte in Valsugana (Trentino), in Forest, 2007, vol. 4, 1, 19 ss., nonché, A. Brugnoli – D. Furlan, Il fagiano di monte: Un’esperienza di gestione in provincia di Trento, in Sherwood, 2006, 125, pp. 31 ss. Si consideri, anche, che «in Europa centrale, il gallo cedrone era più numeroso ai tempi in cui le pratiche di utilizzo antropico del territorio favorivano foreste aperte con un ricco strato erbaceo-arbustivo» (così A. Brugnoli – R. Brugnoli, La foresta come habitat del Gallo cedrone: ricerca applicata e nuove esperienze di gestione, in Forest, 2003, vol. 3, 2).

[37] Ci si riferisce alla declinazione dell’autorizzazione paesaggistica per i tagli colturali, per gli interventi di forestazione e riforestazione et similia (art. 149 d.lgs. 42/2004), nonché alla mera incorporazione dei piani forestali di indirizzo nella redazione dei piani paesaggistici (art. 6 comma 3 d.lgs. 34/2018). Ma, sul punto, è anche disarmante la disamina di una certa giurisprudenza amministrativa. Si veda, ad esempio, Cons. St., sez. IV, 26 febbraio 2015, in www.giustizia-amministrativa.it: «il Collegio ritiene, in ciò condividendo quanto affermato dalla sentenza impugnata, che una destinazione urbanistica a “bosco” non presupponga necessariamente la sussistenza di un bosco, come naturalisticamente considerato, sia in quanto tale definizione sul piano urbanistico ben può essere diversa da quella “propriamente forestale”, sia in quanto una destinazione urbanistica di tal genere, e dunque volta alla tutela della realtà naturalistico – ambientale, oltre a tutelare l’esistente, ben può perseguire il fine di un incremento dell’area boschiva, ove ne sussistano le potenzialità». La decisione è menzionata anche da D. Ponte, Paesaggio agrario e vincolo paesaggistico, in D. Granara (a cura di), Tutela paesistica e paesaggio agrario, cit., 37.

[38] Od anche alcune categorie di beni paesaggistici di cui all’art. 136 d.lgs. 42/2004, la cui identità artistica, storica ecc. può essere fissata e datata nel tempo. Interessante, in proposito, sulla discrezionalità della valutazione tecnica dell’amministrazione preposta alla tutela del patrimonio culturale, la lettura di G. Severini, Tutela del patrimonio culturale, discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità, in Aedon, 3, 2016.

[39] A. Germanò, I domini collettivi, in Diritto agroalimentare, Milano 2018, fasc. 1, 85 ritiene che l’espressione «domini collettivi» sia oggi assorbente sia rispetto agli usi civici in senso stretto, che con riguardo alle proprietà delle terre civiche e delle terre collettive.

[40] L’agevole espressione è di F. Marinelli, Assetti fondiari collettivi, in Enc. dir., Milano 2017, vol. X.

[41] V. ampiamente, F. Marinelli, Gli usi civici, cit., 110 ss.

[42] A. Ziefer, Naturschutz e Denkmalschutz nella Costituzione (Grundgesetz) della Repubblica Federale di Germania, in Ricerche di storia dell’arte, 2, 2010, 90: «Il legame «naturale» tra la tutela dei beni culturali e la protezione dell’ambiente e del paesaggio, menzionata nei testi costituzionali, non ha invece riscontro a livello normativo: nella Germania odierna il Naturschutz e il Denkmalschutz sono due campi divisi, gestiti diversamente e indipendentemente dal punto di vista legislativo. Il fatto che il primo sia tutelato dalla legislazione nazionale, mentre il secondo non trovi nemmeno menzione nella costituzione della Repubblica Federale, può persino far pensare a una questione di gerarchia». Sull’eventuale percolazione nel testo costituzionale del dei concetti dei Denkmäler der Kunst, der Geschichte und der Natur, si veda la ricostruzione storica di S. Settis, op. cit., 184.

[43] H. Küster, Storia dei boschi. Dalle origini a oggi, Torino 2009, 263.

[44] Parole pesanti, sulla efficienza della tutela paesaggistica, vengono pronunciate da S. Settis, op. cit., 14 s.: «L’Italia è fra i pochi Paesi al mondo che abbiano la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale nella propria Costituzione […]; ha in merito un complesso di leggi organiche che sono fra le migliori del mondo, forse le migliori; eppure continua ogni giorno la selvaggia aggressione al paesaggio, disprezzando le norme o ‘interpretandole’ per piegarle alla speculazione edilizia»; ed ancora (ibidem): «Il Codice dei beni culturali e del paesaggio […] prevede espressamente (art. 135) misure congiunte Stato-Regioni per la pianificazione paesaggistica, e in particolare per la “conservazione degli elementi costitutivi e delle morfologie dei beni paesaggistici”, “il minor consumo del territorio”, “la riqualificazione delle aree compromesse o degradate” e “il ripristino dei valori paesaggistici”. Come mai questi principi non trovano applicazione? Per colpa di chi la normativa di tutela vigente (il Codice) non sta arrestando il degrado?». Ed ancora (p. 211), già sulla l. 431/1985: «Fra tutte le regioni italiane, nemmeno una rispettò il termine della legge Galasso per la redazione dei piani paesistici; e il Ministero, che aveva dalla legge pieni poteri sostitutivi, li eserciterà una sola volta. Anche il controllo di legittimità del Ministero sulle autorizzazioni rilasciate dalla Regioni nelle aree vincolate per il loro interesse paesistico fu episodico e saltuario, con esiti complessivamente fallimentari».

[45] Per S. Settis, op. cit., 49, paesaggio, territorio e ambiente non sono sinomimi, «eppure coprono, da diverse angolature di discorso e sotto differenti profili storici, lessicali e giuridici, lo stesso identico spazio, che è poi quello in cui si svolge […] la vita d’ogni giorno di noi cittadini»

[46] Forse ben riassunta da G. Cerina Ferroni, op. cit., 25: «tutelando e valorizzando il tutto (cioè l’ambiente), senza distinzioni, si protegge, per effetto automatico, anche l’elemento culturale peculiare (il paesaggio), evitando conflitti di attribuzioni e di competenza».

[47] A. De Sario, La “Regia Caccia” di Torre Guevara nel Settecento, Foggia 2008, 4 e 171 ss., nota con peculiare evidenza le sottigliezze (e le arguzie) nel conflitto di tipo socio-economico instauratosi a danno dei territori boschivi (e ricchi di selvaggina) delle riserve di caccia dei Borbone rispetto alle pretese delle comunità locali, spasmodicamente alla ricerca di sempre più aree da dedicare alla pastorizia e all’agricoltura.

[48] Cfr. A. Manzi, op. cit., 176, 182, 242 s.

[49] «Gli agricoltori occupano i pascoli montani ormai disertati dai pastori, disboscano vaste aree in pendio, specialmente cerrete e faggete, si spingono sempre più in alto: campi da coltivare vengono strappati alla montagna anche alla quota di 1800 m. La corsa verso l’alto dei contadini è supportata […] da un manipolo di piante giunte qualche decennio prima dall’America come nel caso del mais, fagiolo e, in modo particolare, della patata. […] Le pendici vengono sterrazzate o ciglionate, i campi minuziosamente spietrati e recintati. Si delinea così quel paesaggio di “macere”, muretti a secco, campi recintati che si sostituiscono ai campi aperti […]» (A. Manzi, op. cit., 244). E ciò, nonostante alcuni tentativi di arginare il disboscamento, come quello rappresentato dal Regolamento Forestale del Regno di Sardegna del 14 settembre 1844, cui si è aggiunta la successiva circolare dell’Intendenza Generale di Cagliari del 1846 contro gli «abusi sul taglio di alberi per ademprivio» (quest’ultimo è una forma di uso civico sui fondi pubblici passati in proprietà individuale tipico della Sardegna).

[50] Cfr. A. Manzi, op. cit., 246.

[51] H. Küster, op. cit., 257. Icastica, in tal senso, l’espressione di Gustav Vorherr: “Deutschland, ganz Deutschland ein großer Garten” (su cui G. Gröning, Anmerkungen zu Gustav Vorherrs Idee der Landesverschönerung, in G. Bayerl, N. Fuchsloch, T. Meyer (a cura di), Umweltgeschichte – Methoden, Themen, Potentiale, Hamburg 1994, 159).

[52] E ciò, nella consapevolezza della difficile regolamentazione dei confini tra i sintagmi di ambiente, paesaggio e territorio, mutevole nelle varie opinioni di dottrina e giurisprudenza (cfr. sul punto. S. Settis, op. cit., 22 ss.). Terreno sdrucciolevole, sul quale non s’intende ulteriormente procedere. Cfr., fra altri, L. Perfetti, Premesse alle nozioni giuridiche di ambiente e paesaggio. Cose, beni, diritti e simboli, in Riv. giur. amb., 2009, 1 ss.

[53] Sostiene C. Desideri, op. cit., Milano 2010, 54: «reinserire il paesaggio nell’ambiente vuol dire, perciò, considerare tutti gli elementi e i profili che concorrono a determinarlo al di là della sfera del ‘visibile’».

[54] Così H. Küster, op. cit., 261 che meglio continua: «Lo studio della storia delle foreste ci insegna che non dobbiamo pensare che l’aspetto attuale del bosco sia stabile o rappresenti l’ultimo stadio raggiungibile, perché di fatto è, come gli stadi precedenti, solo una fase evolutiva di transizione verso una situazione ancora sconosciuta, che deve essere considerata naturale esattamente come qualsiasi altro momento della storia del bosco.

[55] «Un’unica “vegetazione naturale potenziale” o un unico “bosco climax” perennemente fisso non può esistere nella realtà ma solo in un modello teorico: piuttosto, si possono formulare numerose possibilità di evoluzione futura e reale dei boschi, tenendo conto della loro dinamica» (H. Küster, ibidem).

[56] Cfr. G. Di Plinio, Diritto pubblico dell’ambiente e aree naturali protette, cit., 17. L’affermazione sembra essere condivisa, nei termini dell’ecologia forestale, dallo stesso H. Küster, op. cit., 263, allorché afferma: «non si dovrebbe arrivare a produrre il “compromesso fra ecologia ed economia”, bensì a riflettere su dove valga la pena di proteggere la compagine naturale, ad esempio conservando uno sfruttamento tradizionale estensivo, e dove occorra procedere nell’ottica del vantaggio economico» (corsivo mio). «Per il paesaggio come per il patrimonio, il dilemma è sempre lo stesso: il pubblico interesse contro gli egoismi privati» (S. Settis, op. cit., 134).

[57] In tal senso Corte cost., 28 giugno 2004 n. 196: « gli interessi coinvolti nel condono edilizio, in particolare quelli relativi alla tutela del paesaggio come “forma del territorio e dell’ambiente”, siano stati ripetutamente qualificati da questa Corte come “valori costituzionali primari” (cfr., tra le molte, le sentenze n. 151 del 1986, n. 359 e n. 94 del 1985); primarietà che la stessa giurisprudenza costituzionale ha esplicitamente definito come “insuscettibilità di subordinazione ad ogni altro valore costituzionalmente tutelato, ivi compresi quelli economici” (in questi termini, v. sentenza n. 151 del 1986). Tale affermazione rende evidente che questa “primarietà” non legittima un primato assoluto in una ipotetica scala gerarchica dei valori costituzionali, ma origina la necessità che essi debbano sempre essere presi in considerazione nei concreti bilanciamenti operati dal legislatore ordinario e dalle pubbliche amministrazioni; in altri termini, la “primarietà” degli interessi che assurgono alla qualifica di “valori costituzionali” non può che implicare l’esigenza di una compiuta ed esplicita rappresentazione di tali interessi nei processi decisionali all’interno dei quali si esprime la discrezionalità delle scelte politiche o amministrative. Il bilanciamento che nel caso di specie verrebbe in considerazione, secondo le ricorrenti, è quello tra i valori tutelati in base all’art. 9 Cost. e le esigenze di finanza pubblica; a questo proposito, però, le Regioni ritengono che nella disciplina impugnata si opererebbe una totale e definitiva compromissione dell’interesse paesistico-ambientale: ciò in quanto uno dei due interessi (quello relativo alla tutela dell’ambiente, del paesaggio e del territorio) apparirebbe, a differenza dell’altro, sacrificato in via del tutto definitiva (e ciò a differenza di altri condoni, come quello fiscale, che pure comportano effetti di clemenza penale). In realtà, questa Corte, nella sua copiosa giurisprudenza in tema di condono edilizio, ha più volte riconosciuto – in particolare nella sentenza n. 85 del 1998 – come in un settore del genere vengano in rilievo una pluralità di interessi pubblici, che devono necessariamente trovare un punto di equilibrio, poiché il fine di questa legislazione è quello di realizzare un contemperamento dei valori in gioco: quelli del paesaggio, della cultura, della salute, della conformità dell’iniziativa economica privata all’utilità sociale, della funzione sociale della proprietà da una parte, e quelli, pure di fondamentale rilevanza sul piano della dignità umana, dell’abitazione e del lavoro, dall’altra (sentenze n. 302 del 1996 e n. 427 del 1995)».

[58] Art. 11 comma 5 l. 394/1991, che legittima la liquidazione solo per i diritti esclusivi di caccia delle collettività locali o altri usi civici di prelievi faunistici. Sembra errare, sul punto, L. De Lucia, Usi civici, in Dig. disc. pubbl., vol. XV, Torino 1999, nt. 151, allorché sostiene che i diritti collettivi possono così essere esercitati, ma solo nelle zone non sottoposte a tutela integrale. E ciò in quanto la lettura sistematica degli art. 11 e 12 l. 394/1991 non sembra fornire appigli utili in tal senso.

[59] Anzi, si realizza la finalità contemplata dall’art. 1 comma 3 lett. b) l. 394/1991: «applicazione di metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare una integrazione tra uomo e ambiente naturale, anche mediante la salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici e architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali e tradizionali».

[60] A.S. Leopold, S.A Cain, Clarence Cottam, Ira N. Gabrielsom, T.L. Kimball, Wildlife management in the national parks, in American Forest, April 1963, 33: «a national park should represent a vignette of primitive America».

[61] Cfr. Corte cost. 11 luglio 1989 n. 391 e F. Marinelli, op. ult. cit., 122 ss.

[62] Circostanza non ammessa secondo la più corretta esegesi degli artt. 1 e 5 l. 29 giugno 1939, n. 1497.

[63] Sovraordinazione evidenziata anche da E. A. Imparato, Identità culturale e territorio tra Costituzione e politiche regionali, Milano 2010, 219 s. L’A. mette in luce, in proposito, l’idea di una identità culturale propria del paesaggio/territorio, da intendersi in senso dinamico, nella conservazione delle caratteristiche paesistiche, antropologiche, storiche e culturali locali appartenenti alle comunità residenti nei parchi. Critico C. Desideri, op. cit., 51, secondo cui l’obbligo di conformare il contenuto dei piani dei parchi ai piani paesaggistici nega la possibilità stessa di una visione unitaria dell’ambiente, dando per scontato che il paesaggio possa essere trattato a sé, separato dall’ambiente («il paesaggio ‘senza ambiente’ del Codice torna, perciò, ad affermare l’idea che esista una sfera della cultura – nella quale entra anche il paesaggio – separata da quella della natura, che è l’esatto opposto di quanto sostenuto da tutte le concezioni più recenti del paesaggio, compresa quella recepita dalla Convenzione europea del paesaggio»).

[64] Per G. Di Plinio, op. cit., 155, la legge n. 431 del 1985 nella misura in cui sottopone i parchi nazionali a vincolo paesistico aggiunge la tutela paesistica a quella naturalistica, «con ciò stesso dimostrando che le due tutele, fino al momento della sua emanazione, hanno coperto interessi pubblici differenziati»; ed ancora: «tentare di estendere l’applicazione della tutela paesistica ai parchi significa diminuirne seccamente la protezione, smembrarne la compatta unitarietà, degradare l’interesse naturalistico dalla posizione di esclusività e supremazia al rango di mera aspirazione, da contrattare davanti a un tavolo in cui tornano ad essere vivaci e pervasivi gli interessi economici e settoriali». L’affermazione può essere affiancata a quella di G.L. Ceruti, La protezione del paesaggio nell’ordinamento italiano: evoluzione. Una proposta per il terzo millennio. Relazione tenuta il 16 ottobre 2009 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei nell’ambito del Simposio Ricerca naturalistica, Conservazione dell’Ambiente e della Biodiversità in Italia coordinato dal prof. Sandro Pignatti, Rovigo 2009, 8, secondo cui «tutte le leggi a tutela delle bellezze naturali, del paesaggio e dell’ambiente approvate nell’ultimo secolo sono accomunate dalla previsione di un’autorizzazione ampiamente discrezionale da parte di un’autorità amministrativa. L’esperienza negativa o comunque inadeguata di siffatte normative induce ad assumere una posizione forte per salvaguardare ambiti del territorio nazionale non solo di valore universale, ma anche fondamentali per la nostra identità nazionale, per l’economia turistica, per il richiamo che esercita il nostro Paese sugli stranieri».

[65] Corte cost., 22 luglio 2009 n. 225. E ciò, nonostante la diversa impostazione di Corte cost., 19 maggio 2008 n. 108, ivi, tendente ad affermare la conformità a costituzione della prevalenza dei piani paesistici su quelli delle aree protette, purtuttavia in un caso specifico afferente ad un parco regionale, nei cui riguardi la tutela apprestata dalla l. 394/1991 è effettivamente un po’ degradata ed abbassata al contesto regionale di riferimento. In dottrina, G. Di Plinio, L’ideologia dei beni comuni e la costituzione economica dell’ambiente, in Studi in onore di Gaetano Silvestri, Torino 2016, 868.

[66] Cui certo non aggiunge nulla di positivo la disposizione di cui all’art. 147 d.lgs. 42/2004. Si pensi, ad esempio, alla costruzione di altane od altre strutture per le osservazioni faunistiche, tipiche del paesaggio mitteleuropeo, ma non certo del paesaggio agro-silvo-pastorale italiano.

[67] Si vedano: Nationalparkverwaltung Berchtesgaden, Nationalparkplan, Bayer. Staatsministerium für Landesentwicklung und Umweltfragen, München 2001; T. Rettelbach, Antagonists of the European spruce bark beetle Ips typographus L in Berchtesgaden national park with special consideration of the ant beetle Thanasimus sp Die Antagonisten des Buchdruckers Ips typographus L im Nationalpark Berchtesgaden unter besonderer Beruecksichtigung des Ameisenbuntkaefers Thanasimus sp, in Nationalpark Berchtesgaden Forschungsbericht 2002, 47: 1-185; A. Angst, R Rüegg, B. Forster, Declining Bark Beetle Densities (Ips typographus, Coleoptera: Scolytinae) from infested Norway Spruce Stands and Possible Implications for Management, in Hindawi Publishing Corporation 2012, 10.1155/2012/321084.

[68] Non, cioè, secondo il più ortodosso canone della “leale collaborazione”, su cui, anche per ulteriori rinvii, cfr. S. Mabellini, L’assetto delle competenze sul paesaggio alla luce della giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 2006, 5, 3576 ss.

[69] In via eventuale, senza risolvere il problema del contrasto fra le due dissimili tipologie di pianificazione, si potrebbe anche solo ipotizzare che quantomeno, ai sensi dell’art. 146 comma 6 d.lgs. 42/2004, le Regioni deleghino regolarmente le funzioni autorizzatorie in materia di paesaggio agli enti parco. Ma ciò sarebbe solo un palliativo.

[70] N. Dudley (Editor) (2008). Guidelines for Applying Protected Area Management Categories. Gland, Switzerland: IUCN, 16.

[71] «Protected landscape or seascape: Where the interaction of people and nature over time has produced a distinct character with significant ecological, biological, cultural and scenic value: and where safeguarding the integrity of this interaction is vital to protecting and sustaining the area and its associated nature conservation and other values» (N. Dudley (Editor) (2008). Guidelines for Applying Protected Area Management Categories, cit., 2, 20)

[72] Ed è quest’ultima forma, definibile come “elementi paesaggistici protetti” (cfr. A. Postiglione, Gestione e ordinamento delle aree naturali protette in Germania, in G. Cordini (a cura di), Parchi e aree naturali protette, 365), che potrebbe attagliarsi al sistema di tutela paesaggistica degli assetti fondiari collettivi.

[73] Art. 1 comma 3 lett. b) l. 394/1991. Per C. Desideri, op. cit., 51, nt. 116, la portata del piano per il parco «non è quella di essere uno strumento volto alla regolazione dei soli profili naturalistici, bensì volto alla gestione ambientale dell’area, sotto tutti i profili: naturali, culturali, delle attività economiche tradizionali e compatibili, ecc.».

[74] Art. 12 comma 2 lett. c) l. 394/1991. Anche il Piano economico e sociale si muove sulle stesse finalità con «l’agevolazione o la promozione, anche in forma cooperativa, di attività tradizionali artigianali, agro-silvo-pastorali, culturali, servizi sociali e biblioteche, restauro, anche di beni naturali, e ogni altra iniziativa atta a favorire, nel rispetto delle esigenze di conservazione del parco, lo sviluppo del turismo e delle attività locali connesse» (art. 14 comma 3 l. 394 cit.).

[75] «La concezione estetica dei beni naturali e del patrimonio storico, archeologico ed artistico e l’ideale paesaggistico resero possibile delineare una garanzia costituzionale per la conservazione della natura e dei patrimoni nazionali già nei testi adottati nel primo dopoguerra, secondo il modello weimariano che aveva introdotto la prima razionalizzazione costituzionale, manifestando una marcata propensione sociale» (così G. Cordini, Introduzione, in G. Cordini (a cura di), Parchi e aree naturali protette, Padova 2000, XXIV). Sostiene che il “bello di natura identitario è una componente del «diritto ad essere felici» R. Fattibene, L’evoluzione del concetto di paesaggio tra norme e giurisprudenza costituzionale: dalla cristallizzazione all’identità, in questa Rivista, n. 10/2016, 20.

[76] «Inteso come complesso dinamico e unitario il cui equilibrio è necessario per la vita dell’uomo e l’Habitat, cioè il luogo di vita degli organismi naturali» (G. Cordini, op. cit., XV).

[77] Cfr. art. 1 comma 1 e 3 lett. a) l. 394/1991.

[78] Si veda D. Amirante, La Direttiva Habitat e la “rete Natura 2000”: verso un modello europeo di conservazione integrata, in D. Amirante (a cura di), La conservazione della natura in Europa, Milano 2003, 37).

[79] Cioè indicati negli “allegati” alla medesima Direttiva.

[80] Art. 5 comma 9 d.p.r. 357/1997. Sul punto, D. Amirante, op. cit., 45.

[81] Art. 2 comma 1 l. 168/2017.

[82] Corte cost., 20 febbraio 1996 n. 46, cit., secondo cui gli usi civici concorrono a determinare la forma del territorio su cui si esercitano, quale prodotto di “una integrazione tra uomo e ambiente naturale”.

[83] «Come plasmata dall’interazione tra uomo ed ambiente» (A. Predieri, Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, cit., 10).

[84] Sembra condividere tale affermazione L. Fulciniti, I beni d’uso civico, cit., 266, allorché ritiene che la tutela degli usi civici non debba essere apprestata dagli interventi antropici, ma proprio in quanto interventi antropici sul territorio.

[85] “Paesaggio storico culturale” della Germania, secondo G. Cerina Ferroni, op. cit., 22, nt. 93.

[86] R. Bork, Allgemeiner Teil des Bürgerlichen Gesetzbuches. In: Lehrbuch des Privatrechts. 2. neubearbeitete Auflage. Mohr Siebeck, Tübingen 2006, 81.

[87] Ex plurimis, v. A. Ciervo, I beni comuni, Roma 2012, 12 ss.

[88] Così U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari 2011, 52 ss. Dello stesso A. si veda Il benicomunismo e i suoi nemici, Torino 2015, passim. Un altro “manifesto” sui beni comuni può rinvenirsi in A. Lucarelli, Beni comuni. Dalla teoria all’azione politica, Viareggio 2011.

[89] Così A. Lucarelli, Note minime per una teoria giuridica dei beni comuni, in Quale Stato, n. ¾, 2007, 95.

[90] G. Di Plinio, L’ideologia dei beni comuni e la costituzione economica dell’ambiente, cit., 862.

[91] Cfr. E. Vitale, Contro i beni comuni. Una critica illuminista, Roma-Bari 2013. Si veda anche il contributo di T. Bonetti, I beni comuni nell’ordinamento giuridico italiano tra “mito” e “realtà”, in Aedon, 1, 2013.

[92] G. Di Plinio, op. ult. cit., 874, che così conclude il suo pensiero: «in altre parole, parchi, riserve, zone di protezione speciale non possono essere teorizzati e venduti come beni comuni».

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